Il ministero dell’Agroalimentare? Finalmente!”. A dirlo è il professor Gabriele Canali, docente di Economia agraria all’Università Cattolica di Piacenza e direttore del Crefis, il Centro di ricerca sulle filiere suinicole.
L’idea di modificare il nome e unire il comparto agroalimentare gli piace. E molto. “Si immagini, per uno che si occupa di filiere e di distretti e studia come favorire l’integrazione, non poteva esserci notizia migliore”.

A una condizione, però, “che effettivamente al cambio del nome seguano anche adeguati progetti per agire in sinergia”, raccomanda Canali. Insomma, se è un’operazione di lifting del nome, di facciata, allora poteva essere evitata.
Se invece si tratta di un piano serio per avere una voce unica fra produttori primari, trasformatori e fase finale della collocazione del prodotto, magari unita a politiche per incentivare l’export, allora lo considero un passo in avanti significativo, che può fare bene al comparto e contribuire a raggiungere gli obiettivi di crescita del made in Italy agroalimentare”.

Tutto facile? Non proprio. “Credo che la fase iniziale, quando partirà, avrà senz’altro bisogno di un rodaggio, perché ad oggi non è chiaro come si svolgerà e in che modo verranno unificate o integrate le competenze”, riflette Canali.

Eppure non a tutti piace l’idea del ministero dell’Agroalimentare. C’è anche chi, chiedendo di rimanere anonimo per non mettere in difficoltà il proprio ente di riferimento, evidenzia qualche perdita: “Si parla di agroalimentare, d’accordo, ma adesso non c’è già il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali? Quindi se l’alimentare è già compreso, che fine faranno, invece, le politiche forestali, fondamentali nella gestione del territorio e del paesaggio rurale, oltre che in chiave di presidio idrogeologico?