Tre anni fa veniva sottoscritto l'accordo di programma tra la Ferrero, Ismea e cinque regioni italiane tra cui il Lazio sul progetto 'Nocciola Italia', lanciato dalla multinazionale di Alba per lo sviluppo di una filiera di qualità nel nostro paese, per disporre di materia prima certificata per i propri prodotti.

Un accordo in cui venivano definite anche le azioni per favorire uno sviluppo sostenibile delle coltivazioni, sempre con l'obiettivo comunque di aumentare di 20 mila ettari le superfici coltivate entro il 2025.

Nel frattempo anche la forte richiesta di prodotto, anche se non ha avuto sempre riflessi positivi sui prezzi alla produzione, ha portato ad un aumento delle superfici dedicate ai noccioleti. Un aumento che in Italia è stato del 15% con aumenti soprattutto in Piemonte e Lazio che si confermano i primi produttori nazionali di nocciole.

Una tendenza, quella della crescita dei noccioleti che da un lato mostra delle interessanti potenzialità, ma dall'altro comporta dei rischi, sia di natura ambientale che economica.

Il forte interesse per l'aumento delle superfici infatti può portare a non valutare accuratamente la vocazionalità dei territori, in particolare dei suoli, da utilizzare e effetti negativi di tipo ambientale connessi all'estendersi incondizionato di sistemi di monocoltura.

Dal punto di vista economico invece c'è il rischio per i produttori di aderire a contratti di coltivazione a volte non del tutto definiti, dove il potere contrattuale dei singoli si dovrà confrontare con le scelte strategiche di un gruppo multinazionale.

Su questi temi si è svolto nei giorni scorsi a Nepi, nel Lazio, un incontro internazionale sulla filiera della nocciola, dal titolo 'Dalla produzione locale al mercato globale. Problematiche e opportunità', promosso dal biodistretto della Via Amerina e delle Forre, con il contributo di Arsial e la collaborazione della Fao. Un incontro che ha visto anche la partecipazione di produttori provenienti dalla Turchia e dalla Georgia, altri grandi paesi produttori di nocciole.

Le delegazioni straniere hanno richiamato l'attenzione sul ridotto potere contrattuale che contrappone i produttori agricoli all'industria di trasformazione, soprattutto dove riuscire a organizzare un'offerta comune sia alquanto problematica.

I coltivatori italiani invece si sono concentrati sulla mancata valorizzazione delle produzioni di qualità e sullo scarso interesse dimostrato finora a realizzare certificazioni di qualità della produzione da parte dell'industria di trasformazione.

Al momento infatti, a parte alcune iniziative intraprese per la valorizzazione della nocciola Piemonte Igp, il gruppo Ferrero avrebbe dimostrato poco interesse alle certificazioni biologiche e al riconoscimento di indicazioni geografiche sui propri prodotti.

Dal punto di vista della qualità della produzione è stato affrontato anche il tema della presenza di aflatossine, che costituisce una delle principali criticità sanitarie del prodotto nella fase post raccolta. Una problematica che si fa più sentire sul prodotto estero e che spinge quindi ad accordare la preferenza alla nocciola italiana.

Riguardo alla sostenibilità l'aspetto emerso è che un ulteriore ampliamento delle aree dedicate al nocciolo nel Lazio dovrà essere associato all'adozione di rigidi criteri di ecosostenibilità. Un tema anche complesso dal momento che una prima analisi condotta dal Crea ha evidenziato che nel Lazio non ci sono attualmente terreni 'adatti' alla coltivazione del nocciolo e individua solo un 43% dei suoli come moderatamente e 'marginalmente adatti' alla coltura.

Un quadro generale che deve far riflettere dal punto di vista ambientale, agronomico, economico e politico in senso lato, per poter realmente far diventare il nocciolo una vera opportunità per il sistema agricolo del Lazio e non solo.