La seconda edizione del Rapporto sull'Agroalimentare Italiano di Ismea misura gli effetti dei cambiamenti climatici sull'agricoltura italiana nel 2023, che ha registrato ingenti perdite a causa di alluvioni e siccità, ma al tempo stesso evidenzia i grandi passi in avanti dell'export dell'agroalimentare, la ripresa degli investimenti in agricoltura, favoriti dall'incrociarsi dei vecchi Psr, Programmi di Sviluppo Rurale, e dal pieno vigore del Pnrr, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

 

Eppure restano da superare almeno due elementi di freno strutturale alla crescita dell'agroalimentare: la spesso iniqua distribuzione del valore lungo le filiere e la condizione ancora di grande precarietà del reddito agricolo, che negli anni di minor produzione non viene sufficientemente compensato dalla crescita dei prezzi.


Raffaele Borriello, capo di gabinetto Masaf - introducendo i lavori della presentazione del rapporto ieri, 21 novembre 2024, a Roma nella Sala Cavour del Ministero dell'Agricoltura - ha affermato: "Mi hanno colpito due dati: la crescita dell'export a oltre 64 miliardi nel 2023, con un delta nell'ultimo decennio dell'87%, sopra la media europea, un dato che in prospettiva ci restituisce una tendenza ancora positiva e gli investimenti in agricoltura, che sono cresciuti del 43,5% nell'ultimo decennio, e gli imprenditori intervistati si dicono ancora più propensi ad investire nel 2024-2025". "Un segno - ha sottolineato Borriello - che gli importanti investimenti pubblici nelle filiere e il Decreto Legge Agricoltura - che mette un altro miliardo nel settore - sono premessa per la crescita degli investimenti".

 

In proposito, il presidente di Ismea, Livio Proietti ha affermato: "L'intuizione di spingere sull'agroalimentare ha dato risultati confortanti. Vogliamo arrivare a quota 70 miliardi di euro di export agroalimentare entro la fine di quest'anno e siamo vicinissimi". Il dato ufficiale riporta già una crescita del 7,1% dell'export agroalimentare italiano nei primi sei mesi del 2024.

 

Matteo Zoppas, presidente dell'Ice, che ha avvalorato la possibilità di raggiungere il target di 70 miliardi di euro di export per fine 2024 ha sottolineato: "L'export va bene anche perché alle fiere due buyer su tre che gli imprenditori agricoli e agroalimentari incontrano sono selezionati da Ice e dal Governo". Per Zoppas a frenare l'espansione dell'agroalimentare italiano, specie quello di qualità, ci sono la contraffazione e l'italian sounding.

 

Il ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida, intervenuto al termine della presentazione dei dati, ha detto: "L'elemento principale su cui concentrarsi per l'agroalimentare italiano è l'apertura di nuovi mercati e - ha sottolineato - occorre anche dare un importante peso alla logistica, in un contesto internazionale che si rivela fragile". Ma sull'accordo Ue-Mercosur il ministro ha ribadito la necessità che siano introdotti dei vincoli di reciprocità: "Non possiamo aprire a trattati che consentono agli imprenditori dei Paesi terzi di entrare coi loro prodotti nei nostri mercati senza rispettare le nostre stesse regole su ambiente, salute e tutela del lavoro".

 

Per il ministro occorre porre mano alla "Valorizzazione della rete di distribuzione che in Italia è meno valida di altri Paesi" elemento che oggi incide negativamente sulla competitività del settore. Secondo il ministro Lollobrigida, in una prospettiva strategica, vanno rafforzate le filiere che stanno affrontando una fase critica, per innalzare il livello di autoapprovvigionamento come nel caso dei bovini da carne e della soia. "Noi auspichiamo che non ci siano dazi" ha detto Lollobrigida "ma è comprensibile utilizzarli nei confronti di chi non rispetta le nostre stesse regole". Ultimo affondo sulla ricerca: "Dobbiamo investire di più in una prospettiva strategica per rafforzare il sistema nelle imprese nella competizione internazionale".

 

Il peso dell'agroalimentare italiano

Sergio Marchi, direttore generale di Ismea ha introdotto i lavori inquadrando il comparto agroalimentare ed il suo peso nell'economia, mentre Fabio del Bravo della Direzione Filiere e Analisi dei Mercati di Ismea ha specificato meglio le variazioni in termini di valore aggiunto nelle varie filiere.

 

L'Italia copre poco meno del 17% dell'economia del settore primario dell'Ue. Un'incidenza, in termini di valore aggiunto, che pone il nostro Paese al secondo posto, appena dietro alla Francia (con il 17,4%), ma davanti a Spagna (14,7%) e Germania (13,8%).

 

Una posizione confermata anche nel 2023, nonostante la riduzione del 3,3% del valore aggiunto in termini reali (al netto cioè della dinamica dei prezzi), conseguente a un'annata agraria pesantemente condizionata dagli eventi climatici avversi. Tra questi, i noti fenomeni alluvionali del mese di maggio in Emilia Romagna, Toscana e Marche, le gelate tardive, che hanno interessato il 40% delle aree agricole italiane, specie nel Nord Est e lungo la dorsale appenninica, e le ondate di calore al Sud. Con un bilancio dei danni, a carico soprattutto di frutta, foraggi e cereali, stimato da Ismea, per i soli eventi catastrofali (gelo e brina, siccità e alluvione) attorno al miliardo di euro.


L'annata 2023 è stata negativa per le coltivazioni legnose, che più di altre hanno risentito dell'impatto di grandine e gelo tardivo sulla produzione: frutta (-3%), ma soprattutto vino (-16,1%), che nel 2023 ha sperimentato la peggiore vendemmia dal dopoguerra ad oggi.

Il consuntivo dell'anno si è rivelato negativo anche per patate (-4,4%), ortaggi (-1,5%), per il comparto florovivaistico (-3,8%) e per la zootecnia (-2,6% le carni bovine e -1,1% il latte).

 

Le coltivazioni erbacee, al contrario, hanno registrato un andamento complessivamente positivo, in particolare le colture industriali (+8,5%) e i cereali (+6,6). In recupero la produzione di olio di oliva, aumentata in misura significativa (+36%) anche se lontana dai potenziali.

 

Contrariamente al settore primario, l'industria alimentare ha chiuso il 2023 con un risultato decisamente migliore: il valore aggiunto è aumentato del 16% a prezzi correnti e del 2,7% in volume, rispetto all'anno precedente, nel contesto di una dinamica molto positiva nel decennio 2014-2023, sia in termini nominali (+45%) che reali (+26%). La produzione, l'anno scorso, ha registrato solo una leggera flessione (-1,7% rispetto al 2022), ma nel quadro di un trend decennale, comunque, positivo (+10,5%).

 

Il primo comparto dell'industria alimentare italiana è il lattiero caseario, a cui si deve il 14,3% del fatturato complessivo; seguono ortofrutta (8,5%), elaborati a base di carni (8,1%), vino (7,6%) e macellazione di carni rosse (7,2%). Pasta e olio, prodotti di punta dell'export, coprono rispettivamente il 5,7% e il 5,1% del fatturato dell'industria alimentare italiana.

Le dinamiche del 2023 sono positive per il lattiero caseario (+3,4%), trainato da export e consumi interni; cioccolateria e confetteria (+1,6%), grazie alla spinta della domanda estera; mangimistica (+1,9%) e panetterie e pasticcerie artigianali (+0,9%). Si riducono, al contrario, i fatturati di oli e grassi vegetali (-10,5%), industria ittica (-9,2%), carni rosse (-7,5%), succhi di frutta (-7,9%) e gelati (-8,1%).

 

L'Italia si conferma al terzo posto per incidenza sul valore aggiunto dell'industria alimentare dell'Europa, con una quota dell'11,9%, preceduta da Germania (leader con il 19,5%) e Francia (17,8%); quarta è la Spagna con il 10%.

 

Agricoltura e industria alimentare realizzano insieme un valore aggiunto di 77,2 miliardi di euro, pari a circa il 4% del Pil dell'Italia, con il contributo maggiore riconducibile al settore primario (40,5 miliardi). Comprendendo anche le fasi a valle del sistema produttivo della distribuzione e della ristorazione, l'incidenza sul Pil sale al 7,7%, spingendosi fino al 15% se si includono i servizi di logistica, trasporto e intermediazione relativi alla filiera agroalimentare.

 

Filiere, restano gli squilibri nella distribuzione del valore

Permangono squilibri strutturali nella distribuzione del valore lungo la filiera agroalimentare, con le fasi più a valle, quali logistica e distribuzione, in grado di trattenere la quota più elevata del valore finale del prodotto, a discapito soprattutto della fase agricola.

 

Secondo l'analisi della catena del valore, realizzata da Ismea sulla base dei dati più recenti dell'Istat e illustrata ieri nell'ambito della presentazione del Rapporto Agroalimentare 2024, su 100 euro spesi dal consumatore per l'acquisto di prodotti agricoli freschi, meno di 20 euro remunerano il valore aggiunto degli agricoltori, ai quali, sottratti gli ammortamenti e i salari, resta un utile di 7 euro, contro i circa 19 euro del macrosettore del commercio e trasporto. Per i prodotti trasformati, che implicano un passaggio in più dalla fase agricola a quella industriale, l'utile dell'agricoltore si riduce a 1,5 euro, solo di poco inferiore a quello dell'industria, pari a 1,6 euro, contro i 13,1 euro di commercio e trasporto.

 

Nel periodo 2019-2023, nel contesto dei grandi stravolgimenti dovuti all'emergenza pandemica e allo shock energetico, il fisiologico ritardo nella trasmissione degli aumenti dei prezzi delle materie prime alle fasi a valle dell'agricoltura, in particolare all'industria e alla distribuzione, ha comportato temporanei cambiamenti nella distribuzione del valore che non hanno tuttavia modificato, a conclusione di questo percorso, gli assetti a sfavore delle componenti produttive, in particolare del settore primario.

 

L' approfondimento, realizzato dall'Istituto, sulla filiera della pasta e su quella della carne bovina ha messo in luce una situazione di sofferenza, con margini particolarmente compressi, se non addirittura negativi, per le aziende agricole e gli allevamenti, mitigati solo dal sostegno pubblico, attraverso la Pac e gli aiuti nazionali.

 

Nella catena del valore della pasta, i costi di produzione del frumento duro rappresentano una quota molto elevata (36%) del valore finale al consumo. Sia in presenza di bassi prezzi della granella, come nel 2017, sia di valori quasi doppi nel 2023, i costi unitari a carico delle aziende agricole sono sempre risultati più elevati dei prezzi di vendita, con conseguenti valori negativi del reddito operativo. Nella filiera della pasta è soprattutto il margine della distribuzione a incidere sul prezzo al consumo, con un peso del 30% circa nel 2017, salito al 36% nel 2023.

 

Anche nella catena del valore della carne bovina la fase più critica è quella dell'allevamento, stretta nella morsa dei costi di approvvigionamento dei capi da ingrasso e dei costi di alimentazione, che nel loro insieme rappresentano oltre il 60% del valore finale del prodotto. La fase primaria è anche quella su cui gravano i maggiori rischi di natura esogena, dovuti ai bassi livelli di autosufficienza per i ristalli e le materie prime.

 

In alcuni anni, come nel 2023, le implicazioni di tale dipendenza sono state particolarmente evidenti, con i costi di allevamento che hanno superato i ricavi generati dalla vendita dei capi, determinando un reddito operativo negativo. La fase dell'industria di macellazione mantiene più o meno la sua redditività (4,5% nel 2022 e 3,1% nel 2023), con una struttura in grado di diversificare il rischio; la distribuzione, infine, funge da cassa di compensazione, ritardando il trasferimento dell'inflazione ai prezzi al consumo, ma assicurandosi un margine lordo di 3,56 euro al chilogrammo, che in quota rappresenta quasi il 30% del prezzo finale.

 

I nodi da sciogliere sul fronte dell'auto approvvigionamento

Linda Fioriti, analista di mercato di Ismea ha introdotto l'argomento approvvigionamento e filiere. Una maggiore apertura internazionale ha favorito i rapporti commerciali con l'estero e una più solida struttura produttiva e logistica che ha alzato il grado di autonomia delle forniture rispetto ai fabbisogni alimentari.

 

L'agroalimentare italiano ha sperimentato progressi su entrambi i fronti, estero e interno. A confermarlo è una batteria di indicatori contenuti nel Rapporto sull'agroalimentare italiano di Ismea presentato ieri, che quest'anno propone un approfondimento sulle catene globali del valore e sul grado di approvvigionamento delle diverse filiere nazionali, temi di stringente attualità alla luce del quadro di crescente incertezza che sta inducendo diversi Paesi a rivedere le strategie di delocalizzazione adottate negli ultimi decenni.

 

Uno degli indicatori chiave è il tasso di approvvigionamento generale del settore agroalimentare italiano, inteso come rapporto tra il valore della produzione interna e quello dei consumi, che nel complesso si è attestato, nel 2023, vicino al 100% (99,2%).

 

Il dato - sottolinea l'Ismea - è frutto, tuttavia, di situazioni differenziate a livello di singoli comparti e prodotti. In particolare, la compresenza di un'agricoltura deficitaria di alcuni prodotti e di un'industria alimentare orientata all'esportazione determina situazioni di significativa dipendenza dall'estero in alcune filiere per l'approvvigionamento di materie prime da trasformare in prodotti caratteristici del made in Italy. Una tendenza che si è accentuata negli ultimi anni di pari passo all'aumento della capacità di penetrazione sui mercati esteri dell'industria alimentare e alla contestuale minore disponibilità di materia prima nazionale a causa dell'impatto dei cambiamenti climatici.

 

Questo deficit rende alcune filiere più vulnerabili a fattori geopolitici, climatici e sanitari che influenzano le catene di fornitura, specie laddove il tasso di approvvigionamento è basso e la provenienza delle importazioni è fortemente concentrata o legata a Paesi lontani e a rischio.

 

I primi dieci prodotti importati dall'Italia sono in ordine: caffè, olio extravergine d'oliva, mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro, fave di soia, olio di palma e panelli di estrazione dell'olio di soia. Il grado di autosufficienza dell'Italia per questi prodotti varia dallo 0% nel caso del caffè e dell'olio di palma a oltre il 60% nel caso dei prosciutti, ma sono mais e soia, ingredienti di base dell'alimentazione zootecnica, i prodotti che, secondo l'analisi di Ismea, presentano le maggiori criticità in termini di approvvigionamento.

 

Per entrambi le importazioni negli ultimi venti anni sono considerevolmente aumentate, comportando una drastica riduzione del tasso di approvvigionamento (al 46% per il mais e al 32% per la soia nel 2023). Quanto ai Paesi d'origine, per la soia si evidenzia una forte concentrazione delle forniture dal Brasile (50%), mentre nel caso del mais, pur in presenza di un livello di concentrazione minore, prevalgono gli arrivi dall'Ucraina, un Paese chiaramente a rischio elevato.

 

Il tasso di approvvigionamento italiano è basso anche per i frumenti, con l'industria pastaria che dipende per il 44% dalle forniture provenienti da Canada, Russia, Grecia e Turchia e quella dei prodotti da forno che per il 64% del suo fabbisogno ricorre al prodotto di origine ungherese, francese, austriaco, ucraino e romeno.

 

Anche per la carne bovina il tasso di approvvigionamento è sceso a livelli molto bassi nel 2023 (40%), con la Francia che concentra l'85% del valore dell'import di bovini da ristallo. La prevalenza di un solo fornitore, trattandosi della Francia, è rassicurante sul fronte geopolitico ma rende comunque vulnerabile la filiera nazionale ad altri fattori, come testimoniano le recenti difficoltà dovute alle restrizioni sanitarie associate alla diffusione negli allevamenti francesi di epizoozie e alla più recente emergenza blue tongue.

 

Infine, per l'olio extravergine di oliva, di cui l'Italia è il secondo maggiore esportatore mondiale e il primo consumatore, le forniture provenienti dagli altri Paesi del bacino Mediterraneo, in primis la Spagna, sfiorano il 50% del nostro fabbisogno, legando a doppio filo le sorti del prodotto nazionale a quello estero, soprattutto in termini di variabilità dei prezzi.

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