I numeri possono venirci in soccorso. In Italia le aziende agricole sono piccole o piccolissime, con estensioni massime che arrivano a 1.500 ettari. Sono aziende familiari, molte delle quali in sofferenza economica. Nel resto del mondo le dimensioni sono molto più grandi. In Kazakistan, in Brasile o in Russia ci sono "fattorie" con due o tre milioni di ettari di terreni coltivati.
“Risulta evidente come sia una partita persa in partenza per gli agricoltori italiani puntare su commodities come grano o mais”, spiega Fabio Maria Santucci, professore di Scienze agrarie all'Università degli Studi di Perugia, durante l'evento organizzato ad Expo 2015 da Anabio-Cia dal titolo "Come attribuire un valore economico alla biodiversità agricola".
“Un chilo di soia prodotto in Italia ha un costo maggiore rispetto a quello asiatico, ma dal punto di vista qualitativo è assolutamente identico”.
Anche perché le sementi utilizzate sono le stesse in tutto il mondo. A fronte di 250 mila specie vegetali viventi, circa 50mila sono commestibili, ma sul Pianeta se ne coltivano appena 250. Tra queste solo 15 forniscono il 90% dell'energia per vivere e da soli mais, riso e frumento garantiscono il 60% delle calorie. Attraverso il miglioramento genetico poi, queste tre specie sono state ridotte a dieci varietà. Il 60% delle sementi utilizzate è nelle mani di 10 multinazionali, di cui quattro ne detengono il 50% (Monsanto, DuPont, Syngenta e Bayer).
La parola d'ordine è quindi differenziazione. Sfruttare le varietà vegetali di cui il nostro Paese è ricco per offrire al consumatore italiano e internazionale un prodotto non solo buono e genuino, ma che non può trovare da nessun'altra parte nel mondo.
L'Italia lo ha visto nel comparto del vino. “Una volta si puntava solo sulla quantità, coltivando solo uve che rendessero molto e mettendo così a rischio la sopravvivenza di alcuni vitigni”, continua Santucci. “Poi si è passati ad una produzione di qualità, con la riscoperta dell'immenso patrimonio vitivinicolo italiano”. Una svolta che ha fatto bene anche alle tasche degli agricoltori.
Il mercato è lo strumento per incentivare il biologico, che ha fatto della tutela della biodiversità uno degli elementi cardine. Gli italiani hanno compreso il valore di un prodotto bio e sono disposti a spendere di più per un alimento certificato. Lo dimostrano i dati: dal 2008 il comparto è in forte crescita e nel 2013 ha raggiunto i 3,26 miliardi di euro.
Anche la Pubblica Amministrazione può fare la sua parte, attraverso il "public procurement", l'acquisto cioè di prodotti biologici da parte di mense universitarie, ministeri, scuole, ecc. Il governo dovrebbe poi concedere agevolazioni fiscali e un'aliquota Iva più bassa. Oltre ad un accesso preferenziale al credito, fatto anche di garanzie pubbliche.