A partire dall’età del bronzo la ciliegia è presente in molte parti d’Europa. Ma la leggenda ne fa scaturire l’origine da Cerasus, sul Mar Nero, teatro nel 71 a. C. della battaglia dei Romani contro Mitridate, il re del Ponto. La ciliegia è così uno dei “bottini” di guerra del generale Licinio Lucullo.
Vero o no, alla città di Cerasus (o Kerasos) rimandano alcuni appellativi della ciliegia, che in spagnolo si dice cereza, cerise in francese, kirsche in tedesco, cherry in inglese. Radice comune.
Anche i dialetti italiani hanno un discreto campionario di assonanze alla città del Ponto: saresa in mantovano, siaresa in veneto, ziresa in trentino, cerasa in umbro. E ancora: cerase o cirèsce è l’appellativo abruzzese, nell’Italia del Sud si dice cerasa, ceresa in Piemonte.

Gli antichi Romani se ne innamorano immediatamente (e non può essere altrimenti) e la celebrano in uno dei luoghi simbolo del buon vivere: Ercolano e Oplontis (nella villa di Poppea), nei pressi di Pompei, dove sono raffigurati uccelli che si cibano di ciliegie. Prelibatezza per tutti, insomma.
Nell’età cristiana, che tutto rimanda a significati reconditi, la rossa drupa diventa il medium per simboleggiare il sangue di Cristo versato per la redenzione umana. La connotazione eucaristica (e paradisiaca, secondo un significato secondario) porta la ciliegia ad essere presente in alcuni quadri sull’Ultima Cena e in alcune madonne (dal Sassetta a Tiziano).

A Firenze, dal Cenacolo dipinto da Taddeo Gaddi (anno del Signore 1340), nel refettorio dell’ex convento di Santa Croce, si corre all’Ultima Cena che 140 anni dopo il Ghirlandaio affresca nel convento di Ognissanti, la narrazione è protagonista ben oltre la rappresentazione figurativa.


Domenico Ghirlandaio, Cenacolo di Ognissanti

Lo sguardo dal refettorio offre un trompe l’oeil su un giardino florido, dove fanno capolino immagini allegoriche: lo sparviero nel cielo rappresenta il male e l’attacco all’anatra non è altro che un’insidia alle gioie celesti; sul lato sinistro il Ghirlandaio ritrae il cardellino, icona della Passione, mentre sulla finestra a destra si posa un pavone, animale che rimanda all’immortalità dell’anima che ambisce alla salvezza della vita eterna, grazie al sacrificio di Cristo. Palme e cipressi dicono del martirio, mentre i melograni sono un richiamo al sangue di Gesù.
La tavola imbandita è la celebrazione dell’eleganza e sinceramente fa specie per l’allocazione conventuale. Comunque sia, il Ghirlandaio dipinge una tovaglia il lino bianco, ricamata con ippogrifi blu a “punto Assisi”, bottiglie e bicchieri di vetro sottile, e si lancia in una natura morta costituita dal pane e il vino (il corpo e il sangue di Cristo, secondo le Scritture), le albicocche (simbolo del peccato), la lattuga (richiamo alla penitenza), le arance (frutto del Paradiso). E, naturalmente, le ciliegie, emblema – giova ripeterlo - della Passione.


Nel 1475, cinque anni prima, il veneto Carlo Crivelli dipinge una tempera su tavola – oggi all’Accademia Carrara di Bergamo – conosciuta come Madonna Lochis, dal nome del collezionista che la acquisì nel 1866. Fortemente influenzato dal Mantegna, Crivelli si spreca nella simbologia. Il paesaggio retrostante alla Madonna col bambino è, nel lato sinistro del quadro rigoglioso, mentre nella parte destra presenta alberi spogli: la vita che viene donata dopo la morte (per colpa del peccato originale) e in seguito alla morte di Gesù Cristo.
Abbiamo di fronte una pittura dettagliata, quasi fiamminga per la ricchezza di particolari, come quelli che si notano in primissimo piano, appoggiati sulla balaustra di marmo. Il garofano rosso, collocato verticalmente, è il fiore di Dio, mentre il cetriolo collocato sotto il braccio di Maria celebra la purezza della madre di Gesù: un elogio alla verginità, anche se c’è chi ha dato un’interpretazione diversa.
Il cetriolo, infatti, arriva a ombreggiare la firma “Opus Caroli Crivelli Veneti” e questo potrebbe alludere all’episodio di adulterio che, a causa dello scandalo, impose all’artista di lasciare Venezia. Si tratta di una espiazione simbolica, dunque, per il peccato commesso? Così, forse, lascerebbe supporre proprio la collocazione di fianco della ciliegia, simbolo di redenzione.


Carlo Crivelli, Madonna Lochis

Rimanendo in ambito devozionale, è il patrono di Monza, Gerardo Tintore, il “santo delle ciliegie”, il dono che dovette fare ai custodi del tempio per poter pregare un’intera notte nel Duomo del capoluogo lombardo.

Un secolo più tardi, a cavallo fra manierismo e barocco, è l’urbinate Federico Barocci (1528-1612) a lasciarci l’immagine de Il riposo durante la fuga in Egitto, conosciuto come la Madonna delle ciliegie, opera commissionata nel 1573 da Simonetto Anastagi. Nel dipinto non è la palma a nutrire lungo il percorso Giuseppe, Maria e Gesù, ma una pianta di ciliegio: simbolo eucaristico al pari del pane che spunta dalla bisaccia collocata a terra vicino ai piedi della Madonna. E il paesaggio luminoso che si apre alle spalle allude, come riconosce Ambra Grieco, “all’intera umanità per la quale il futuro sacrificio di Gesù sembra essersi consumato”.

Tedesco di Olomuc, ma olandese per stile pittorico, Georg Flegel (1566-1638), dipingendo tre anni prima di morire la Natura morta con ciliegie (esposto oggi alla Staatsgalerie di Stoccarda) denota un virtuosismo pittorico vicino all’arte orafa. Il pane, il vino, le ciliegie non sono più soltanto oggetti reali, così come il formaggio (simbolo di durata) e la libellula (della fugacità, ma anche della luce divina creatrice) spostano l’asse su una dimensione temporale.


Georg Flegel, Natura morta con ciliegie

È un quadro dal quale traspare la volontà di Flegel di andare oltre la riproduzione degli oggetti stessi, per spingersi fino alla trasposizione sulla tela della percezione visiva. Perché? Il motivo è che l’artista, come altri studiosi coevi, sono affascinati – e fortemente attratti – dagli importanti traguardi raggiunti dalla scienza qualche decennio prima in campo ottico: il microscopio, inventato verso la fine del XVI secolo nei Paesi Bassi, e il cannocchiale. La paternità è attribuita erroneamente a Galileo, ma i primi a realizzare quanto concepito nel Cinquecento dal napoletano Giambattista Della Porta sono, ancora una volta, gli olandesi.

La ciliegia richiama la pia condotta in famiglia, come rappresentano Marten Van Heemskerck (1498-1574) e Pieter Jan Foppeszoon nel bellissimo ritratto Patrizio di Harlem con la famiglia. E l’approccio, ancora una volta, è differente dai Paesi Bassi protestanti e calvinisti all’Italia.
Nel quadro La venditrice di frutta, Vincenzo Campi va in contrasto coi modelli fiamminghi e raffigura la frutta (ciliegie comprese) accuratamente impilata a piramide in canestri o su piatti. Una classificazione che deve il proprio tributo alla scienza botanica e che si distingue dal Capriccio del milanese Arcimboldo, dove i frutti sono l’ennesimo memento mori.


Vincenzo Campi, La Fruttivendola

La ciliegia è anche un bene di lusso, un prodotto costoso, soprattutto a certe latitudini. E di ciliegie, e altri frutti, traboccano le tavola imbandite nelle nature morte Seicentesche, travolte da un Barocco che eleva l’opulenza a sfarzo e a modus vivendi, per lo meno per l’alta borghesia e la nobiltà.
Da Occidente a Oriente (e ritorno).

In Cina il ciliegio fiorito evoca la bellezza e la sessualità femminile, mentre in Giappone (Paesi dalla cultura diversissima fra loro, anche nell’arte, come scrive lo storico dell’arte Flavio Caroli, ma con punti di contatto sorprendenti con la cultura occidentale) regalare un ramo di ciliegio in fiore è beneaugurante, segno di felicità, affetto e amore. Una bellezza radiosa e fugace, allegoria della mortalità umana, che non risparmia nemmeno i samurai, i guerrieri evocati dai petali dei fiori di ciliegio che scendono sul terreno, colpiti da un temporale improvviso.
Sarebbe appunto il sangue dei samurai ad aver colorato di rosa – recita una leggenda giapponese – “la fioritura di ciliegio degli alberi ai piedi dei quali venivano seppelliti, per tradizione, i corpi dei samurai. Esclusivamente a queste guardie imperiali era riservato il tatuaggio dei fiori dei ciliegi, rimasto in seguito a simbolo di tutte le arti marziali”.

Exemplum di legame con l’arte della guerra, tanto che i kamikaze della Seconda guerra mondiale se li facevano dipingere sulla carlinga degli aerei prima di immolarsi contro il nemico nell’ultimo volo suicida. “Così i soldati cadevano sul campo di battaglia in ordine sparso come petali di fiore di ciliegio trascinati dal vento e – secondo una credenza popolare propagandata in tempo di guerra – le loro anime proprio in questi si reincarnavano”.

Passo indietro al 1867 e fari puntati sulla Parigi degli Impressionisti. Perché è a quell’Expo che Van Gogh, Manet, Degas, Monet e Gauguin vengono folgorati dal ciliegio e dai fiori del lontano Oriente. Al punto che nessuno di loro resterà freddo di fronte a quelle bellezze, dando vita al nuovo stile chiamato Giapponismo.

Sei mesi prima di morire, nel 1904, al Teatro d’Arte di Mosca Anton Cechov (1860-1904) riuscì a vedere la sua opera, Il giardino dei ciliegi. Concepita come una commedia, venne rappresentata in chiave tragica, e da allora interpretata secondo un duplice canone. L’opera narra la storia di una famiglia aristocratica russa che ritorna nella loro proprietà, successivamente messa all’asta per pagare un’ipoteca. È un affresco che risente del periodo storico, liberato da pochi decenni dal feudalesimo, dove gli alberi di ciliegio sono visti come simbolo di tristezza e rimpianto per il passare del tempo.

Impossibile, per il sottoscritto, lasciarvi con un’immagine amara. Siamo partiti (più o meno) con l’inganno scenografico del Ghirlandaio a Ognissanti in Firenze, tocchiamo la meta pittura col trompe l’oeil di Cornelis Norbertus Gijsbrechts (1610- dopo il 1675), che dipinge Il cavalletto: un quadro nel quadro, l’icona del retro del quadro. Un “lato B” che rappresenta l’inganno nell’inganno.

Ma la mia ciliegina sulla torta, se me la concedete, è tutta dance. È quasi estate (o almeno dovrebbe essere), è tempo di volare a Ibiza. Si balla al Pacha, gustatene il simbolo…