“Crisi e rilancio della suinicoltura”, questo il titolo del piano messo a punto dal Mipaaf per risolvere la difficile situazione della suinicoltura italiana. Succedeva tre anni fa, nell’estate del 2008, e tre ministri fa, quando a sedere sulla poltrona di via XX Settembre al ministero dell'Agricoltura c’era ancora Luca Zaia. Poi è arrivato Giancarlo Galan e infine Saverio Romano. Sono cambiati i nomi dei ministri, ma non la crisi della suinicoltura. Ancora tutta da risolvere. E ancora una volta arriva l’impegno del ministro (quello attuale) che promuove un tavolo (l’ennesimo) per dire agli allevatori che si stanno studiando i rimedi. Un “piano” si dice dal ministero, c’è già, ma potrà essere integrato dalle proposte e dagli ulteriori suggerimenti da parte dei rappresentanti delle associazioni, entro il termine del 29 agosto. Questo per assicurare l'esame, da parte della Conferenza Stato-Regioni, del decreto attuativo del piano entro metà settembre. Questa volta, è ancora la voce ufficiale del ministero a dirlo, si fa sul serio, tanto che si sono resi disponibili 7 milioni di euro, incrementabili con il contributo delle Regioni. Dove troveranno, le Regioni, i soldi da elargire ai suinicoltori e tutta da vedere, così come l’impiego che si farà dei sette milioni di euro (briciole, come vedremo). Le Organizzazioni degli allevatori, pur con toni e sfumature diverse, hanno accolto con un plauso generalizzato l’iniziativa del ministero. Visti gli esiti dei precedenti “piani” e la vaghezza di questo ancora allo studio forse era meglio attendere prima di sbilanciarsi in un senso o nell’altro.

 

Pannicello caldo

Per il momento si può solo prendere atto che i sette milioni di euro promessi al settore sono poco più di un “pannicello caldo”. Ogni suino che esce dagli allevamenti italiani si porta dietro (sono calcoli della Cia) 20 euro di perdita. Forse qualcosa in meno visto che proprio a fine luglio i prezzi dei suini pesanti sono saliti di un po', giungendo a quota 1,425 euro al chilo. Ma la sostanza non cambia. Proviamo a fare qualche calcolo. In Italia, secondo le stime riportate da Anas nel 2010, sono presenti oltre nove milioni di capi. Se per ognuno di essi si perdono venti euro, il mondo dei suini è di fronte ad un “baratro” di 180 milioni di euro. Ben poco potranno i 7 milioni racimolati (siamo convinti con fatica) dal ministro Romano. Certo, i nostri sono conti imperfetti e approssimati, ma rendono l’idea della gravità della situazione e della esiguità delle risorse disponibili.

 

Sogni e speranze

Serve altro e molti sono i suggerimenti. Dal mondo della cooperazione arrivano proposte di agevolare l’accesso al credito (ma poi i soldi bisogna pur restituirli…), un “sistema qualità nazionale” (ma il mercato è disposto a pagarla questa qualità?), l’attuazione di un valido sistema di etichettatura (che le industrie vedono come il fumo negli occhi…). Un tema, questo della riconoscibilità della provenienza dei prosciutti, sul quale insiste Coldiretti, ma la battaglia anche a Bruxelles è stata persa. L’origine in etichetta vale per le carni, ha detto la Ue, non per i prodotti trasformati. Certo insistere bisogna, ma la soluzione è lontana è qui c’è bisogno di fare in fretta. E non serve invocare i controlli di frontiera, come propongono alcune organizzazioni agricole, visto che le frontiere, di fatto, non esistono. Dalla Cia arriva l’invito a dare maggior peso nei Consorzi di tutela alla “parte agricola”. Giusto, ma assai difficile. Basta vedere quel che succede al Cun (commissione unica nazionale), sede privilegiata per una corretta definizione del prezzo dei suini vivi, ma dove le industrie fanno pesare la loro assenza. Un comportamento stigmatizzato da molti e in particolare da Confagricoltura e da Copagri, ma è una riprova dello scarso potere contrattuale degli allevatori di fronte alle industrie.

 

Risposte difficili

Che fare allora? Semplice e allo stesso tempo complicato. La crisi della nostra suinicoltura è in gran parte legata alla sua specializzazione nella produzione del suino pesante destinato alla trasformazione. Ci sono troppe cosce destinate a diventare prosciutti a marchio Dop, mentre, quasi una beffa, importiamo carne per il consumo fresco e milioni di cosce da trasformare in prosciutti anonimi. Dunque bisogna allineare la produzione alle richieste del mercato. Ridurre la produzione di suini pesanti e aumentare la produzione di suini di peso più leggero, 100 chilogrammi di peso vivo o poco più. La ricetta è già stata proposta a più riprese dal presidente dei suinicoltori (Anas), Andrea Cristini. Convertire gli allevamenti è cosa che richiede tempo (e coraggio) e che espone ad altri rischi. Siamo certi che la carne di suino prodotta in Italia sarà in grado di competere, in termini di costo, con quella di altri paesi della Ue a forte vocazione suinicola? In molti nutrono dubbi, anche se la partita, ovviamente, è tutta da giocare. Per efficienza e capacità gli allevatori italiani hanno le carte in regola per tentare una competizione, sebbene gravati dall’handicap di costi superiori per l’alimentazione e per l’energia.

 

Non c'è tempo

Ma non c’è tempo per attendere che questa trasformazione verso un suino più leggero, se mai ci sarà, possa avvenire. Bisogna fare in fretta, perché gli allevamenti, schiacciati dalla crisi, stanno chiudendo. Un urgenza sulla quale tutti, ma proprio tutti, si sono detti d’accordo. E allora non resta che passare dai Consorzi di tutela e attrezzarli con gli strumenti per governare i livelli produttivi. Sino a ieri non era possibile a causa delle norme sulla concorrenza. Le recenti decisioni in tema di riforma della politica agraria prese a Bruxelles aprono questa via. Dunque, che si aspetta?