Spesso su AgroNotizie si è auspicata la creazione di apposite aree geografiche in cui soddisfare le molteplici velleità proibizioniste di chimica, genetica e meccanizzazione agraria. Velleità che sfociano talvolta in istanze demenziali, orientate più o meno consapevolmente all’ancor più demenziale decrescita felice.
 
In tal modo, si pensa, grazie alla sperimentazione sulla propria pelle dei risultati di tali istanze si capirebbe perché in agricoltura si usano macchinari potenti e costosi, fertilizzanti e agrofarmaci efficaci e genetiche super produttive. Perché in troppi, qui, parlano a sproposito di genetica, chimica e meccanica, mostrandosi intrisi di quell’ipocrisia tipica di chi parla a pancia piena senza però capirne le ragioni e i perché.
 
Difficilmente in Italia potremo però realizzare un tale girone dantesco per demagoghi irriconoscenti, le punizioni per le cui sciocchezze resteranno quindi solo un sogno nelle menti di chi sa e che per tale ragione soffre a ogni mozione, a ogni stolto referendum.
 
C’è però un’area geografica non molto lontana da noi che fra i dannati dell’Inferno ci è caduta suo malgrado. Un’area ove l’incubo si è palesato subito come tale, senza prima mascherarsi da sogno come purtroppo avviene in quest’Occidente ormai debosciato e sempre più disconnesso dalla realtà.
Eppure quell’incubo ha esattamente i connotati del summenzionato sogno: in quell’area le colture non vengono più trattate, né con agrofarmaci, né con fertilizzanti, né si usano più grandi macchine consumatrici di gasolio e produttrici di emissioni. Gli agricoltori, per giunta, non comprano più sementi elette, magari brevettate dalle multinazionali, bensì seminano ciò che si sono messi da parte l’anno precedente, scambiandoseli pure fra loro quando serve.
Un’area dove sarebbe quindi fantastico trasferire in un botto i trasognati detrattori della Green Revolution di Norman Borlaug, ovvero quelli che definiscono “fallimentare” l’agricoltura intensiva che da quella rivoluzione è derivata, decuplicando le rese agrarie.
Quelli che cioè firmerebbero col sangue pur di vivere in un siffatto Eden, avulso dalle mille diavolerie spacciate da avide multinazionali.
 
Firmare i contratti col Diavolo, però, è sempre pericoloso. Perché quell’area si chiama Siria e ciò che ivi succede è stato testimoniato da Abdulsalam Hajhamed, direttore del ministero dell'Agricoltura siriano, invitato speciale dei Forum di medicina vegetale di Bari, edizione 2015.

Scarica la presentazione di Pdf di Abdulsalam Hajhamed

In quella martoriata terra non sono infatti giunti per scelta all’astensione dall’uso delle tecnologie agrarie, scandendo magari il ritmo della decrescita con parole ormai abusate, come “sostenibilità” o “biodiversità”. In Siria è stata la guerra a rendere irraggiungibili tutte quelle tecnologie che qui, in Italia, vengono invece guardate di sbieco come nemiche di salute e ambiente. E i risultati sulle produzioni agricole sono stati devastanti tanto quanto le bombe sulle case e sulla popolazione.
 
L’assenza di macchinari e di pezzi di ricambio rende infatti impossibile una gran parte delle lavorazioni del terreno, come pure la carenza di fertilizzanti e d’irrigazione ha fatto precipitare le rese per ettaro. Rese per giunta impattate da tutte quelle avversità che gli agrofarmaci, ormai irreperibili, avrebbero invece rintuzzato.
Le ruggini del grano sono così cresciute nel tempo, facendo diminuire le produzioni per ettaro da un minimo del 15 a un massimo del 50%. Senza contare malerbe e afidi, capaci di vampirizzare quanto lasciato in piedi dalle ruggini riducendo all’osso le rese finali.
 
Non va certo meglio su olivo, altra coltura tradizionale siriana, ove stanno salendo esponenzialmente verticillosi, mosche, batteriosi, Zeuzera. Da Paese che esportava 25 mila tonnellate di olio, la Siria è crollata a zero. Zero. Non poco, non pochissimo: zero. Tanto che gli agricoltori bruciano gli alberi di olivo per scaldarsi o cucinare.
 
Pure andate perse le banche dati genetiche, conservate gelosamente a Damasco e ad Aleppo, cancellando varietà originarie della zona e obbligando a seminare anche ciò che è giunto oltreconfine in veste di aiuti alimentari. Senza concia, senza protezione. Esposte da subito alle fameliche ife fungine che le attendono al varco nel suolo.
Perché l’agricoltura senza macchine, senza genetica, senza nutrizione, né acqua, né difesa è un’agricoltura spacciata, sconfitta. Un'agricoltura dalla quale si può solo mietere fame.
 
Per giunta, i tecnici agrari sono o morti o fuggiti all’estero, facendo mancare così agli agricoltori anche un minimo di guida e assistenza di fronte a tali difficoltà. Quei medesimi tecnici che là vengono ora rimpianti, mentre qui, in Italia, sono invece guardati come servi obbedienti delle lobby multinazionali della chimica, ignorando bellamente l’importanza del loro ruolo.
 
Diversi i programmi di cooperazione internazionali che cercano adesso di salvare il poco salvabile. Ma sono gocce in mezzo al mare e per giunta non potranno portare benefici finché la guerra impedirà la ripresa delle pratiche agricole. Una ripresa che forse contribuirà anche a far rientrare in patria quella popolazione fuggita sì di fronte alle bombe, ma anche di fronte alla fame. E si parla della metà del censimento siriano anteguerra.
 
Ci si ricordi quindi del dramma siriano. Anche di quello agricolo. Ovvero di quell’inferno capace di mostrare gli incubi per ciò che sono, anziché illudere le menti semplici con autolesionistici sogni.
Soprattutto, ci se ne ricordi ogni volta che un piatto colmo giunge sulle nostre tavole. E magari si ringrazi, per quel piatto, non solo perché l’Italia vive in pace, ma anche perché vi si riesce a produrre quel cibo che altrove non è più possibile coltivare.

E ci si chieda pure, e banalmente, come mai qui si riesce a produrlo, quel cibo, invece di sparare stupidaggini anacronistiche che lasciano tristi e sconsolati proprio coloro che come missione hanno quella di sfamare tutti gli altri. Idioti inclusi.