Nonostante nel 2023 l'Italia si sia collocata al secondo posto tra i produttori mondiali di vino dietro la Francia, c'è ancora troppo vino.

 

Il problema della sovrapproduzione - o meglio della stagnazione del marcato del vino - sta portando ad un aumento delle giacenze invendute in cantina ed è stato anche uno dei temi centrali affrontati all'ultimo congresso nazionale di Assoenologi, l'Associazione Enologi Enotecnici Italiani.

 

E tra le soluzioni proposte per cercare di risolverlo c'è stata quella dell'espianto dei vigneti, con l'obiettivo di produrre meno e di puntare sulla qualità. Una soluzione, quella dell'espianto, che è stata presa in considerazione anche dai Francesi. 

 

Ma è veramente la soluzione? O meglio, è l'unica soluzione possibile?

 

Forse no. Un'altra strada potrebbe essere quella di ottenere produzioni diverse dai vigneti, evitando così quelle problematiche che l'estirpazione dei vigneti si porta inevitabilmente dietro, sia a livello strategico che aziendale.

 

Infatti, anche tralasciando gli aspetti normativi e burocratici legati alle quote vigneto e ai diritti di reimpianto, estirpare i vigneti significa ridurre la capacità produttiva del Paese per diverso tempo, dal momento che ci vogliono da 6 a 10 anni per riavere un vigneto nel pieno della sua produttività, senza considerare i costi per ripiantare.

 

Inoltre, a livello aziendale, estirpare un vigneto spesso significa trasformare un impianto specializzato in un terreno pressoché marginale, dal momento che la maggior parte dei vigneti sono in zone collinari e non irrigue.

 

E anche nel caso si possa sostituire la vite con colture ad alto reddito, come ad esempio il nocciolo, sarebbe comunque necessaria un'importante riconversione aziendale.

 

Invece puntare su produzioni del vigneto che siano diverse dal vino, come i vini dealcolati o anche i succhi di frutta d'uva, permetterebbe di mantenere il patrimonio viticolo e di non cambiare le strutture e le organizzazioni aziendali.

 

Inoltre, la dealcolazione potrebbe essere sfruttata anche sui vini già prodotti e in giacenza, dal momento che per fare vini senza alcol bisogna partire da vini già pronti e dealcolarli.

 

Questo permetterebbe alle aziende vitivinicole anche semplicemente di vendere vino alle aziende che dealcolizzano, senza necessariamente investire in impianti propri per la produzione dei vini dealcolati.

 

Una soluzione che non comporterebbe particolari cambiamenti né in vigna né in cantina, garantendo ampia flessibilità di mercato e la possibilità di tornare a vendere vino sui canali tradizionali se la domanda lo richiede.

 

Ovviamente anche i vini dealcolati hanno bisogno di essere venduti, ma il loro mercato è in piena crescita a differenza di quello del vino propriamente detto.

 

Un mercato che, inoltre, non entra in concorrenza diretta con quello del vino, dal momento che questi prodotti vengono scelti generalmente da persone che vogliono per varie ragioni evitare il consumo di alcol.

 

Il primo paese per la vendita dei vini senza o con poco alcol sono gli Stati Uniti - con un giro di affari che ha già abbondantemente superato il miliardo di dollari nel 2023 - che oggi si collocano anche come mercato di riferimento per le etichette italiane che già sono in commercio.

 

Ma, come è emerso anche all'ultimo Vinitaly, anche il 36% dei consumatori italiani si sono detti interessati a queste nuove tipologie di prodotti, dimostrando che le opportunità di crescita ci sono.

 

È ovvio che oggi non si può risolvere su due piedi la crisi di mercato dealcolando tutto il vino invenduto, ma iniziare ora ad orientarsi anche verso questa tipologia di prodotti può essere molto interessante.

 

Lungi da essere una minaccia per la nostra tradizione vinicola, i vini dealcolati possono contribuire a sostenere e a tutelare la nostra viticoltura, oggi più che mai.