Se c’è un settore nella semidisastrata agricoltura italiana in cui le cose vanno ‘lisce come l’olio’, questo non è certamente quello dell’olivicoltura.

Eppure ci sarebbero tutti i presupposti perché le cose possano invece essere diverse: la dieta mediterranea, di cui l’olio d’oliva è elemento centrale, è diventata patrimonio dell’Unesco; la produzione è cresciuta a livello mondiale di oltre 450 mila tonnellate negli ultimi 10 anni (+ 20), mentre nello stesso periodo il consumo è aumentato di 500 mila tonnellate, uscendo dalle aree tradizionali e ‘globalizzandosi’. Nei nuovi paesi consumatori, inoltre, la quota di olio di oliva consumato rispetto agli altri grassi alimentari è ancora bassissima, con una conseguente enorme potenzialità di sostituzione e, quindi, di crescita dei mercati.   
L’Italia, poi, vanta nella produzione di olio d’oliva qualche migliaio di anni di esperienza e una significativa porzione di superficie agricola fortemente vocata. Non a caso italiani sono stati i principali marchi che per decenni hanno reso nel mondo l’olio di oliva sinonimo di prodotto italiano.

Date le premesse, il settore olivicolo nazionale dovrebbe essere in pieno fermento produttivo e commerciale, rappresentando – forse solo dopo quello vinicolo – la punta di diamante dell’export agroalimentare nazionale. Dovrebbe, ma la realtà è ben diversa.

All’aumento di produzione dell’ultimo decennio, il totale dei paesi europei ha contribuito per meno della metà. Al raggiungimento di questo già mediocre risultato, l’Italia non ha partecipato affatto: la nostra produzione d’olio di oliva si aggira da tempo intorno alle 400 mila tonnellate. Sostanzialmente la stessa degli anni ’60. Nulla sembra cambiato, a parte la qualità, ma negli anni ’60 l’Italia rappresentava oltre il 30% del prodotto mondiale, oggi la quota è scesa al di sotto del 15%, nelle annate migliori.

L’ultima annata, inoltre, è stata decisamente da incubo, con la nefasta combinazione di maltempo, mosca olearia e Xylella che ha provocato a livello nazionale una perdita dei raccolti superiore in media al 35%, con picchi del 90% in alcune zone della Toscana (stime Coldiretti). Probabilmente l’extravergine nostrano non finirà nei sei mesi previsti da Coldiretti, ma con un raccolto totale intorno alle 300 mila tonnellate della scorsa campagna (in base ai dati Istat nel 2013 erano state 464 mila), ci sarà comunque poco da essere allegri.

Il 2014 è stato senz’altro un annus horribilis, in cui tutte le sfortune possibili sembrano essersi date appuntamento nei nostri oliveti e in cui i produttori non si sono dimostrati pronti a fronteggiare, laddove possibile, le emergenze (alcune delle quali annunciate) e salvare almeno parzialmente i raccolti. Ma le iatture dell’anno passato sono state contingenti e hanno ottenuto il loro massimo risultato anche a causa di un settore incapace da decenni di darsi una struttura e una dimensione generale moderna e funzionale.

Da un lato l’Italia sconta la propria tradizione, limitata da impianti concepiti per una gestione manuale e con piante secolari dal valore storico e paesaggistico superiore a quello produttivo, dall’altro 40 anni di aiuti comunitari da noi sono stati quasi invariabilmente tradotti in ‘reddito aggiuntivo’ piuttosto che in risorse da investire in nuovi impianti o, quantomeno, in adeguamento degli esistenti. Il risultato è che oggi il nostro sistema produttivo è costretto a competere con altri molto più efficienti, perché più automatizzati e con ridotto impiego di manodopera, dove un litro di olio extra vergine può costare anche meno di 2 euro contro i 3 euro di media della Puglia e i 6-8 euro delle Regioni del Centro Nord.

Per inciso, lo stesso problema di produzione degli extravergini  lo si ritrova per l’olio di sansa. In questo settore, secondo un allarme lanciato da Assitol, ci sarebbero diverse aziende a rischio chiusura per mancanza di materia prima. Così, oltre alla carenza di olio alimentare – per quanto di qualità minore – il deficit produttivo investirà con i suoi effetti anche il settore delle energie rinnovabili, e ancora prima i frantoi, elemento fondamentale quanto misconosciuto della filiera.

"L’anno passato è stato un anno tremendo, che segue a una serie di anni tutt’altro che brillanti e precede un 2015 che si prevede sarà anch’esso fonte di notevoli criticità – ha dichiarato Licia Gambini, presidente Unfo (Unione nazionale frantoiani oleari) - Abbiamo tra il 20 e il 30% di aziende a forte rischio chiusura e come Unfo abbiamo chiesto alle istituzioni competenti il riconoscimento dello stato di calamità e una revisione degli studi di settore, elaborati in tempi decisamente migliori e in base a una situazione economica che non ha più nulla a che fare con quella attuale".

Non consola neanche l’ossessivo ritornello della qualità superiore dell’olio italiano che compenserebbe la scarsa quantità. In olivicoltura, aumentare le rese è compatibile con un aumento della qualità e in un oliveto condotto con sistemi moderni, dove la raccolta è fatta velocemente con macchine automatiche, la qualità dell’olio raggiunge facilmente livelli di eccellenza. Oggi gli oli spagnoli sono sempre più lontani dallo stereotipo di oli scadenti e non sono poche le aziende straniere che vincono premi internazionali prima appannaggio esclusivo dei produttori del Bel Paese, per tacere degli oli cileni, australiani e californiani ormai stabilmente presenti nelle boutique alimentari di mezzo mondo. Il differenziale qualitativo medio tra gli extravergine ‘nostri’ e ‘altrui’ si è ridotto ormai al punto che diviene sempre più difficile giustificare al consumatore la differenza di prezzo tra i due prodotti.

L’obbligatorietà introdotta nel 2009 di indicare l’origine in etichetta avrebbe dovuto costruire un valore per l’olio 100% italiano; purtroppo i risultati sono stati misurabili in una manciata di centesimi in più rispetto agli extravergini convenzionali, con buona pace dei produttori di oli d’oliva nazionali di qualità. Le oltre 40 Dop e l’unica Igp costituiscono un frammento eterogeneo di indiscutibile impatto comunicativo e di immagine, hanno anche  dato un grosso contributo per la crescita della cultura e del valore del prodotto, tant’è vero che vengono vendute a prezzi mediamente superiori ai 10 euro,  ma sono residuali in una prospettiva di volumi produttivi.

Sia chiaro: non stiamo sostenendo che la politica di protezione e promozione di questi marchi sia in se sbagliata o inutile, ma solo che non può rappresentare l’unica in un settore complesso come quello dell’extravergine. La produzione di questi oli, infatti, si è attestata da anni intorno alle 10 mila tonnellate annue, pari a circa il 2% della produzione nazionale. Decisamente pochino se si ambisce a incrementare il peso commerciale degli extravergine italiani sui mercati mondiali.

Cosa stanno facendo i nostri principali competitori? Gli spagnoli si sono tassati per otto milioni di euro all’anno, per costruire una comunicazione positiva intorno al loro prodotto, hanno investito sull’efficienza dei propri impianti e ora stanno investendo sulla differenziazione qualitativa e, appena riescono a metterci le mani sopra, acquistano le più note marche italiane. In Cile, Australia, Sudafrica, California e nei nuovi paesi emergenti, l’olivicoltura è intesa sempre più come una coltura moderna, efficiente, produttiva e di alta qualità. Oggi si produce anche con le stagioni invertite nell’emisfero australe, tra l’altro, una novità che sta spostando la competizione anche su nuovi paradigmi, dove freschezza e nuovi profili sensoriali aggiungono differenziazioni e valore.

Mentre gli altri corrono, l’Italia continua ad arrancare, zavorrata da una politica di sola difesa di una produzione autoctona insufficiente nel nome di una qualità senz’altro eccellente, ma in grado di generare un valore aggiunto rispetto alla concorrenza che non copre le differenze dei costi di produzione. Appare evidente come insistere su questa politica protezionistica potrà essere senz’altro utile, ma decisamente non risolutivo per uscire da una situazione critica che alcuni, peraltro, ancora si rifiutano di riconoscere.

Un elemento che certo non aiuta a individuare dei percorsi evolutivi del settore è l’assenza di un’idea condivisa di made in Italy. In questo senso è senz’altro indispensabile il raggiungimento di una definizione univoca e universalmente accettata di quello che può essere considerato un prodotto agroalimentare italiano, che non può essere limitata solo a quelli derivati da materie prime al 100% italiane e lavorate e confezionate sul suolo patrio, ma neanche estesa a un prodotto che in Italia viene sostanzialmente solo confezionato. Su questo aspetto nasce anche la battaglia tra produttori e industria, con i primi che gridano al furto di identità del made in Italy in presenza di oli stranieri, e i secondi che si dicono costretti a importare oli stranieri per soddisfare i mercati esteri, dato che la produzione nazionale non basta neanche a coprire il fabbisogno interno.
‘In medio stat virtus’, dicevano i nostri padri, e trovare dove siano il mezzo e la virtù a esso associata è compito di tutti i componenti della filiera, compresi i consumatori. Nel caso dell’olio può essere d’aiuto considerare che tutte le tecnologie sparse nel mondo legate alla lavorazione delle olive sono italiane, a riprova che l’italianità del prodotto finito non può essere ridotta al passaporto della materia prima, così come quella della pasta non può dipendere da quello del grano. Fondamentale, comunque, non ricadere nell’errore già commesso in passato di delegare al solo legislatore, per pigrizia, comodo o incapacità, il difficile compito di tracciare confini tra ciò che è italiano o ciò che non lo è.

Premesso che la filiera dell’olio esiste solo come insieme di elementi eterogenei accomunati solo dall’operare con le stesse materie prime, ma quasi sempre contrapposti nel momento di elaborare una qualsivoglia strategia generale che trascuri gli interessi particolari in favore di un vantaggio comune, proprio a questi elementi sono riconducibili le conoscenze e competenze necessarie per elaborare soluzioni credibili per l’intero settore.
Non è dunque un caso che il Consorzio per l’extravergine di qualità (Ceq), che da tempo predica al vento una maggiore collaborazione di filiera, in una recente tavola rotonda dal titolo “Olivicoltura anno zero. Si riparte”, sia riuscito a riunire quasi tutti i principali
rappresentanti di tutti i livelli della filiera, tra cui numerosi rappresentanti di Agrinsieme, della filiera olivicola, produttori, industriali, confezionatori, deputati, rappresentanti delle istituzioni e delle unioni dei consumatori. Unica grande assente: Coldiretti
Siamo qui per discutere tutti insieme nonostante le fratture tra agricoltura e industria di come uscire dall’impasse. Chi non è venuto ha le sue buone ragioni - ha detto il presidente del Ceq, Elia Fiorillo - Ma se è vero che in un mercato globale bisogna essere efficienti per competere, per quanto tempo ancora in futuro riusciremo a convincere i consumatori mondiali che gli oli italiani sono molto più cari perché molto più buoni? Rendere l’olivicoltura nazionale redditizia non può essere fatto esclusivamente difendendo l’autenticità di una produzione insufficiente”.

Al di la delle proposte pratiche presentate in quella sede, l’incontro ha fatto emergere alcuni importanti punti, condivisi più o meno da tutti i presenti, che sarebbe opportuno tenere nella giusta considerazione nel momento stesso in cui si tenti di formulare un piano d’azione.
Il primo è che sarebbe ora di smettere di raccontarci la favola in cui gli italiani sono gli unici in grado di produrre oli d’oliva extravergini di qualità. Potrà piacerci pensarlo, ma è un fatto abbondantemente smentito dalla realtà.

Il secondo è che un extravergine di qualità made in Italy debba necessariamente essere prodotto integralmente con materie prime nostrane. Dati i risultati produttivi degli ultimi anni in termini di quantità, se si vuole puntare a contare qualcosa sui mercati esteri è arrivato il momento di abbandonare le posizioni “duropuriste” a tutti i costi e di cominciare ad accettare l’idea che non debba essere necessariamente così.
Certamente l’uso di materia prima italiana può rappresentare un elemento di eccellenza tra le produzioni di qualità, ma la selezione e l’uso di miscele di oli (il cosiddetto ‘blending’) provenienti dal mediterraneo è una pratica in uso da decenni e nella quale l’industria italiana si è specializzata raggiungendo picchi di eccellenza. Continuare a negarlo sarebbe negare la realtà, e sostenere che per produrre olio di qualità made in Italy si debbano usare solo olive italiane equivarrebbe a sostenere che nelle scuole italiane si debbano usare i numeri romani invece di quelli arabi.

Terzo elemento da rivedere radicalmente è la capacità produttiva interna. Se si vogliono cambiare le cose è opportuno dimenticare l’adagio “poco ma buono” e mettere mano seriamente a un piano di investimenti a medio e lungo termine reali, che consentano di riqualificare gli impianti attualmente esistenti e di crearne di nuovi in un’ottica di incremento della capacità produttiva e della lavorabilità con i nuovi sistemi tecnologici e, quindi, di riduzione dei costi.
Sempre nel segmento della produzione è indispensabile limitare al massimo la frammentazione della produzione. In questo senso una soluzione può essere il potenziamento delle Organizzazioni dei produttori. Nei casi in cui il tessuto produttivo sia talmente frammentato da non permettere alla maggior parte delle aziende più piccole di rispondere ai requisiti minimi di partecipazione a una Op, il problema si potrebbe risolvere attraverso un sistema cooperativo e consortile che raggruppi i piccolissimi produttori, stabilizzando il potenziale dell’offerta totale in una determinata area e convogliandolo nella Op.

Quarto punto da affrontare è la creazione di un piano olivicolo nazionale, oggi riconosciuto unanimemente come inesistente. Date le premesse è quantomeno difficile dire da dove si dovrebbe partire per dargli vita, ma un buon punto di partenza potrebbe essere trovare i fondi per finanzialo. Fondi già esistenti e virtualmente rintracciabili nei Piani di sviluppo rurale, ma in pratica irraggiungibili in assenza di un serio e concreto coordinamento delle politiche regionali nelle aree vocate all’olivicoltura.
Mancano anche i presupposti perché le istituzioni possano intervenire con celerità – ha dichiarato Giovanni Di Genova, coordinatore Dicor I al Mipaaf, nel corso dell’incontro del Ceq -  Non c’è neanche un computo del fabbisogno di aiuti per gli oliveti produttivi a livello nazionale. Non parliamo di un censimento degli olivi, ma delle necessità delle aziende che vogliono investire e crescere”.

Per quanto riguarda la gran parte degli operatori del settore, su un punto sembra esserci accordo: serve agire, e in fretta, per rendere redditizia la filiera.  E cooperare sembra essere l’unica via d’uscita. Le due anime dell’olivicoltura, quella produttiva e quella commerciale, devono smettere di litigare sul mercato nazionale per rafforzarsi su quello internazionale.

Un mea culpa, però, deve essere fatto anche dal settore della comunicazione, in particolare quella generalista, dove oggi si punta alla spendibilità mediatica dello scandalo o del sequestro di turno omettendo di sottolineare che l’Italia è il paese che vanta la normativa più stringente e il sistema di controlli più esteso ed efficiente in Europa. Questa efficienza rende il sequestro di una partita di merce non la testimonia del basso livello della produzione o una tendenza nazionale alla contraffazione sistematica, ma in realtà l’esatto contrario: la capacità del sistema di scovare nell’enorme massa di prodotti nazionali di qualità quelle poche mele marce che, probabilmente, ad alcuni nostri competitor sedicenti virtuosi sarebbero sfuggite.