Andrea Segrè è il fondatore di Last Minute Market, e nel suo intervento presso il “Forum Food & Made in Italy” ha condiviso non solo uno scenario aggiornato del rapporto che gli Italiani hanno col cibo bensì ha anche fornito uno spaccato degli attuali scenari del business agroalimentare nazionale.  
 
Secondo i dati Ismea e Istat, il consumo di prodotti a marchio Dop e Igp rappresenterebbe circa 7,5 miliardi di euro, pari cioè al 5,5% dei consumi alimentari interni. In altre parole, solo cinque euro e mezzo su cento vengono spesi in prodotti a marchio. Veramente pochi, a onor del vero. Tanto pochi da indurre serie riflessioni su quali dovrebbero essere gli orientamenti produttivi dell’agricoltura italiana, la quale peraltro non pare affatto in grado di soddisfare  la richiesta del rimanente 94,5% di alimenti a costi abbordabili senza ricorrere a pesanti importazioni.
Quindi, secondo Segrè, andrebbe prestata molta attenzione all’affair cibo in Italia, perché i cibi di alta qualità vanno si valorizzati, ma senza dimenticare che l’agroindustria basata sulle commodities resta pur sempre quella che fa il grosso del carrello degli italiani. Nemmeno il Bio pare infatti rappresentare una fetta importante del “monte spesa” nazionale. Il consumo interno di prodotti Bio sarebbe pari a 1,7 miliardi di euro, cioè circa l’1,5% dei consumi interni.
 

Volumi economici e volumi gastrici

 
I numeri sopra riportati svelano già di per sé quanto puzzi di speculazione commerciale la continua campagna mediatica a sostegno dei rarissimi e costosissimi prodotti da gioielleria alimentare. Quelli che, tanto per intendersi, pullulano nei programmi televisivi domenicali che hanno illuso gli Italiani urbanizzati che sia quella l’agricoltura che dà loro da mangiare tre volte al giorno.
Ben lungi da questa visione deformata, il cibo che giunge nelle case degli Italiani viene proprio da quell’agricoltura intensiva di cui nessuno parla mai in termini positivi, citandola invece di continuo come fosse la fonte di ogni male sanitario e ambientale.
Il più delle volte a sproposito, ovviamente.
Stanti così le cose, certi referendum contro di essa, come avvenuto di recente in Val Venosta, non devono stupire più di tanto, in quanto andrebbero solo considerati figli della disinformazione che domina i nostri tempi.
 
Ma vi è di più. Se in valore economico i prodotti Dop e Igp rappresentano solo il 5,5% della spesa italiana, quanto rappresentano in termini percentuali se convertiti in volumi di cibo ingeriti?
Molto meno, si deve pensare, visto che il prezzo medio di questi prodotti è molto più caro del cibo “generico”.
Traducendo il valore dei prodotti d’elite da euro a numero di pance riempite, vi è quindi da credere che difficilmente si possa superare il due per cento. Ovvero, il sospetto è che solo un paio di pance su cento beneficino dei tanto strombazzati solluccheri a tiratura limitata, quelli con l’etichetta tempestata di riferimenti territoriali tanto seducenti quanto forieri di perplessità in chi vada a fare la spesa con una Panda e non in Maserati.
 
Perché con buona pace dei fin troppi saloni del gusto organizzati qua e là in Italia, a pancia vuota i consumatori ragionano male.