La “corsa all’oro” del terzo millennio si chiama “land grabbing” e negli ultimi anni ha assunto dimensioni impressionanti: si tratta letteralmente dell’accaparramento della terra su vasta scala, ossia quel meccanismo tramite cui moderni conquistatori (multinazionali, governi e fondi di investimento) acquisiscono il diritto di sfruttare vaste aree coltivabili del Sud del mondo, a discapito delle popolazioni locali che perdono così la loro principale fonte di sostentamento.

"Per questo è già stato definito come una nuova forma di colonialismo ed è per questo che va assolutamente arginato: è immorale fare affari e speculazioni sul cibo togliendo risorse e nutrimento ai Paesi poveri".
Lo afferma la Cia - Confederazione italiana agricoltori, che ha deciso di aprire la VII Conferenza economica a Lecce con l’anteprima del documentario del giornalista Francesco De Augustinis e la lettura dell’attrice Maria Amelia Monti sul “land grabbing”.

Nell’ultimo decennio, secondo l’International Land Coalition, sono stati venduti, affittati o concessi in uso a 40-50 e fino a 99 anni ben 203 milioni di ettari, oltre 20 milioni l’anno: vuol dire una superficie pari a 7 volte quella dell’Italia, più o meno le dimensioni dell’Europa nord-occidentale. E il primo obiettivo delle negoziazioni è l’Africa, in particolare quella sub-sahariana, che rappresenta con 134,5 milioni di ettari quasi il 50 per cento delle trattative. Seguono l’Asia con il 33 per cento (43,5 milioni di ettari) e l’America Latina (18,3 milioni). Ma una piccola quota, circa 5 milioni di ettari, riguarda anche la campagna europea, soprattutto Romania, Bulgaria, Ungheria, Serbia e Ucraina.

Alla base di questa “fame di terra” c’è prima di tutto la crescita della domanda di cibo, con il suo effetto moltiplicatore sui prezzi delle materie prime agricole, e  il business delle agro-energie.
Nel 2050 la popolazione mondiale arriverà a toccare 9 miliardi, un terzo in più di oggi, e per soddisfare la domanda globale di generi alimentari la produzione agricola dovrebbe aumentare del 70 per cento.
Il "land grabbing" vede opporsi da una parte i Paesi ricchi che però non hanno terre coltivabili e acqua (come ad esempio l’Arabia Saudita) o che contano su un’alta densità di popolazione (come il Giappone) o che vedono crescere in maniera esponenziale la domanda interna (come la Cina) e dall'altra i popoli locali che vivono nella fame e nella povertà.

"La dinamica è quasi sempre la stessa - riporta la Cia - in cambio della cessione o dell’affitto di vaste aree coltivabili, i “ladri di terra” propongono progetti di sviluppo per i villaggi e le comunità, ad esempio sulla salute delle donne, l’educazione dei bambini o per il miglioramento dei redditi degli abitanti. Ma molto spesso non ci sono garanzie e nella maggior parte dei casi i programmi non vengono realizzati. Il problema resta sempre lo stesso: da un lato, non esistono norme internazionali che regolino e controllino negoziati e contratti, dall’altro spesso i governi locali non coinvolgono i contadini dei villaggi, che si trovano espropriati della terra anche se sono loro a lavorarla".

Un primo importante passo avanti contro l’accaparramento delle terre è venuto dall’accordo voluto dalla Fao e ratificato a Roma l’11 maggio 2012 da 124 Paesi membri del Comitato per la sicurezza globale, che hanno scelto di adottare le “Direttive volontarie per la gestione responsabile della terra”. Non sono previste sanzioni, se non morali, per gli Stati e le imprese che contribuiscono al “land grabbing”, ma per la prima volta sono individuati principi e linee guida ai quali i governi di tutto il mondo dovrebbero ispirarsi per assicurare un più equo accesso alla terra. 
"E’ chiaro però che, per contrastare fenomeni odiosi come il “land grabbing” e lottare contro la fame nel mondo, è sempre più urgente favorire politiche che permettano di aumentare la produttività agricola nei Paesi più poveri" conclude la Cia.