Non si placano le polemiche in merito al rapporto shock presentato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nel corso di una tavola rotonda sullo sviluppo sostenibile, svoltasi a Parigi a metà settembre. Nel documento si mette in dubbio la valenza economica e ambientale dei biocarburanti e ci si interroga sul ruolo che potranno ricoprire in futuro.

“Biocarburanti: cura peggiore del male?”
Titolo provocatorio per il documento al centro del dibattito nelle ultime due settimane che critica aspramente le ultime scelte del mondo politico internazionale a favore delle bioenergie, in primis i continui sussidi per lo sviluppo del mercato dei biocombustibili.
Una presa di posizione forte che non rappresenta una novità per l'ente internazionale. Già lo scorso luglio Ocse e Fao avevano presentato in maniera congiunta un rapporto sulle prospettive agricole 2007-2016, denunciando come fosse in continua evoluzione lo scenario agricolo mondiale a causa dell'aumentata domanda di bioenergie e, conseguentemente, di terreno coltivabile da destinare a tale produzione. Seppur a distanza di mesi l’organizzazione internazionale prosegue nelle propria direzione e continua a bocciare l’opzione biocarburanti.
Il documento presentato a Parigi qualche settimana fa fornisce infatti dati precisi sulla situazione attuale e cerca di rispondere a grandi linee alle seguenti due domande: le attuali tecnologie sono in grado di produrre biocarburanti in maniera sicura e sostenibile, coprendo da un lato il fabbisogno energetico mondiale e dall’altro evitando di compromettere la biodiversità del pianeta e di incrementare il prezzo degli alimenti? E le attuali politiche nazionali e internazionali, sostenitrici della produzione di biocarburanti, si sono indirizzate verso le tecniche economicamente più vantaggiose nella lavorazione della biomassa quale miglior soluzione per il settore dei trasporti?

Scorte alimentari e biodiversità a rischio

Secondo quanto sostiene l'Ocse la risposta è negativa. La corsa alle coltivazioni energetiche minaccia di provocare una diminuzione consistente delle scorte alimentari e di danneggiare la biodiversità mondiale senza ricavarne, peraltro, vantaggi ambientali ai fini della lotta ai cambiamenti climatici, perché una maggiore produzione di biocarburanti inciderà negativamente sulla conservazione degli habitat naturali. L'uso del terreno agricolo per produrre biocarburanti potrebbe ridurre la disponibilità di cibo per l'alimentazione umana in seguito a una continua diminuzione del terreno coltivabile, successivamente destinato all'agroalimentare. Per assurdo lo sviluppo intensivo della coltivazione dei biocombustibili potrebbe abbattersi come un cataclisma sul delicato equilibrio dell'ecosistema e, allo stesso tempo, l’apporto dei biocarburanti alla quantità di energia pulita sarebbe minimo: solo il 3 per cento entro il 2050. In poche parole, piccoli benefici a caro prezzo pagati a spese dei consumatori. IL rapporto Ocse cita l'esempio degli Stati Uniti: nel Paese di Bush si spendono ogni anno circa sette miliardi di dollari per sostenere la produzione di etanolo, ovvero per ogni tonnellata di Co2 che non si immette nell’aria i contribuenti pagano 500 dollari.


Quali le scelte future per istituzioni nazionali e internazionali?
La conclusione del rapporto è chiara: i governi farebbero bene ad abbandonare la politica dei sussidi e ad orientare gli investimenti nella ricerca sui biocarburanti di seconda generazione. Le politiche governative a supporto e a protezione della produzione nazionale di biocarburanti risultano inefficaci e costose, come del resto sterili e irrisorie sono le prospettive economiche complessive. Va pertanto abbandonata la consueta politica dei sussidi a favore di investimenti nella ricerca sui biocarburanti di seconda generazione, vale a dire quelli ottenuti da materie prime non commestibili e che dunque non entrano in competizione con il mercato alimentare. Le tecnologie di seconda generazione promettono bene, anche se tutto dipenderà dalle future innovazioni tecnologiche.