“L’accordo siglato in questi ultimi giorni era forse l’unica soluzione possibile per smaltire il mais contaminato, ma sarà una soluzione tampone e quasi sicuramente non sufficiente, perché in Italia non ci sono abbastanza impianti di biogas per smaltire i volumi di cereali colpiti dal aflatossine”.
Parola del professor Amedeo Reyneri, docente di Filiere cerealicole e delle colture industriali erbacee all’Università di Torino e soprattutto fra i più esperti conoscitori della malattia fungina che colpisce il mais.
Professor Reyneri, partiamo dai numeri. Le fonti sono discordanti, ma qual è il volume di mais contaminato da aflatossina B1?
“La portata reale dell’emergenza ci dice che è stato colpito dal 10 al 20% del mais prodotto a livello nazionale. Direi che se devo indicare una direzione, siamo più vicini al 20 che non al 10 per cento. E difficilmente il mais verrà recuperato, anche con le migliori tecnologie per la detossificazione. Siamo dunque vicini ai due milioni di tonnellate di mais colpito da aflatossine”.
Non ci sono alternative all’uso energetico?
“Direi proprio di no. La soluzione individuata da Lombardia, Emilia Romagna e Veneto è corretta, anche perché non era vietato l’uso per la produzione energetica, ma non era nemmeno esplicitato questo uso alternativo”.
In base al numero e alla potenza degli impianti di biogas nel Nord Italia, ritiene che il settore energetico italiano sia in grado di assorbire una simile quantità di mais infetto?
“Purtroppo non ce la faremo, se consideriamo che una quantità compresa fra 1 e 2 milioni di tonnellate dovrà essere smaltita prima del nuovo raccolto, perché la disponibilità dei silos è uno dei problemi sul piano appunto logistico. Forse arriveremo a smaltire il 30%, massimo il 40% della granella contaminata da aflatossine. Dovremo trovare un modo per stoccare il mais rimanente”.
Quindi la soluzione è più complessa del previsto, par di capire…
“Abbiamo risolto il primo problema, legato alla destinazione del mais con aflatossine. Ora bisognerà fare il possibile per trovare gli stoccaggi e in una fase di medio-lungo periodo, inteso come poche campagne maidicole, dovremo creare le condizioni perché queste emergenze, qualora si verificassero, non siano di grossa portata. Gli agricoltori devono essere messi in condizione di poter segregare all’origine ciò che è contaminato da ciò che non lo è”.
Quale sarà il prezzo di vendita del mais alle filiere agroenergetiche?
“Credo si arriverà probabilmente a 120-150 euro alla tonnellata, con un deprezzamento attuale significativo, di circa il 50 per cento. Ma si farà molta fatica a venderlo ed è difficile dire quali effetti sul mercato potrà innescare. Non dimentichiamo che lo scenario vede anche un aumento delle importazioni di mais da parte delle industrie mangimistiche”.
I contoterzisti, che spesso fanno anche lo stoccaggio, chiedono che il mais venga analizzato già in fase di raccolta. Secondo lei è possibile?
“Attraverso l’esperienza è possibile individuare se un’annata sarà o meno critica riguardo alle aflatossine. I gradi di classificazione sono tre: molto critico, critico, normale. Lo possiamo sapere prima della raccolta, certamente, ma non possiamo andare più in dettaglio. È impensabile andare in campo e campionare, perché il fungo è troppo mal distribuito il fungo. Quindi ritengo che il problema debba essere affrontato al centro di stoccaggio, dove devono essere previsti spazi per fare due o anche tre mucchi di materia prima. Chiaramente la responsabilità non è del terzista, ma dello stoccatore”.
Proprio alcuni giorni fa la Serbia ha innalzato il tasso di aflatossine nel latte, passando dallo standard europeo dello 0,05 percento allo 0,5 percento. Ha fatto bene?
“Aumentare di 10 volte il livello di accettabilità del prodotto lascia francamente perplessi. Perché lascia spazio alla sensazione che i limiti non siano posti sulla base di un ragionevole rischio e di pericolo verso cui sarebbero esposti i consumatori, ma su basi politiche e di opportunità. Invece i vincoli si basano e devono basarsi su un codex alimentarius di natura scientifica. L’impressione che ricavo dall’atteggiamento della Serbia è che attraverso questa modifica dei valori, il latte e i formaggi possano essere venduti nel Paese”.
Quanto verrà a costare l’emergenza aflatossine 2012?
“Non è facile dirlo, ma accanto ad un deprezzamento del 50%, che già significa avvicinarsi alla soglia dei 100 milioni di euro, bisogna aggiungere quella parte di prodotto che verrà immobilizzata senza però essere recuperata. Questa parte varrà zero”.
Ci sono soluzioni per prevenire le aflatossine?
“I trattamenti con l’ozono, proposti in Francia, e con l’ammoniaca effettivamente possono ridurre di una certa quota le aflatossine. Però non siamo sicuri che a questa riduzione corrisponda una effettiva trasformazione della molecola di aflatossina; può anche essere un’operazione che va a mascherare le molecole. Il metodo va sperimentato. È invece molto più efficace la decontaminazione mediante la pulitura, con tecniche che vanno dalla spazzolatura alla vagliatura, dall’aspirazione delle polveri alle tavole densimetriche”.
L’ultima tecnologia è la selezionatrice ottica…
“Sta dando risultati positivi. Le prime esperienze ci dicono che da 50 ppb di aflatossina B1 si scende a 20, scartando però una percentuale di prodotto che parte dal 20% e anche di più. Ma poi il mais rimasto si può commercializzare”.
Si può prevedere come sarà il 2013 sul piano delle aflatossine?
“No, anche se pensare che certe serie climatiche si ripetano è difficile. Il riflesso dell’emergenza dello scorso anno è che le previsioni di semina indicano il 10-12% in meno rispetto alle medie normali”.
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Autore: Matteo Bernardelli