"Se fallisce Glasgow fallisce tutto e abbiamo sei possibilità di successo su dieci".

Dopo la chiamata alle armi del principe Carlo, l'analisi del premier britannico Boris Johnson dalla Cop26 di Glasgow rivela l'impegno ad agire e la lucidità per capire che con i cambiamenti climatici non si scherza. Per capire se i politici faranno solo "bla bla bla" come denunciato dalla paladina dei giovani Greta Thunberg e da un fuori onda carpito dal labiale della Regina Elisabetta II (che ha inviato un videomessaggio all'apertura della Cop26), bisognerà attendere la fine della conferenza dell'Onu sul clima, in programma fino al 12 novembre in Scozia.

Quello che è certo è che servono risorse per intervenire e incentivare le energie rinnovabili e diffondere il più possibile standard di vita più "puliti" e non è sicuramente semplice. Intanto perché il mondo viaggia a diverse velocità e si è dato obiettivi diversi anche sul piano cronologico. Arrivare alle "emissioni zero", se per l'Unione Europea è una sfida da raggiungere entro il 2050, per la Cina è un traguardo fissato per il 2060 e per l'India il 2070.

Tappe che hanno sollevato immediate polemiche, ma che naturalmente non tengono conto della relatività dei dati. È vero che l'India è il terzo emettitore mondiale di gas serra, ricorda Danilo Taino sul Corriere della Sera, con il 6,8% del totale (2018) dopo Cina (23,9%) e Stati Uniti (11,8%). Tuttavia, essendo un Paese con quasi 1,4 miliardi di abitanti, le sue emissioni pro capite sono le minori tra le Nazioni del G20: 1,9 tonnellate contro le 15,52 degli Stati Uniti, le 7,38 della Cina, le 6,40 dell'Unione Europea, le 5,90 dell'Italia (Fonte: Worldometer).
Altri dati confermano che finora il 25% dello stock di gas serra accumulato nell'atmosfera in oltre due secoli è stato emesso dagli Stati Uniti, il 22% dalla Ue (compresa la Gran Bretagna), il 12,7% dalla Cina, contro il 3% accumulato dall'India (Ourworldindata).

La Cina, con l'assenza a Glasgow del presidente Xi Jinping, sembra ribadire la propria linea: l'impegno contro i cambiamenti climatici non deve contrastare la crescita economica. Semmai, il maggiore impegno è atteso dai Paesi occidentali, che secondo Pechino hanno responsabilità storiche nell'ambito dei cambiamenti climatici, per il loro processo di industrializzazione durato oltre due secoli. Secondo alcuni, l'assenza della Cina denota una debolezza del Dragone, che rifugge il confronto e non collabora o, comunque, rifiuta il dialogo; l'esatto contrario dall'attivismo degli Stati Uniti, che forti di un'autosufficienza energetica, sembrano volersi candidare di nuovo come i leader dell'Occidente, dopo la parentesi di Donald Trump e l'avvio un po' appannato di Joe Biden nei confronti degli alleati storici.
Inoltre, gli Usa hanno promesso di riallinearsi agli impegni assunti precedentemente e che il presidente Trump aveva cancellato di colpo, dichiarando il proprio scetticismo sul tema del climate change.

E qualche passo avanti è stato compiuto, restando in chiave geopolitica, anche dalla Russia di Vladimir Putin, che fino al 2019 è stata negazionista sul tema dei cambiamenti climatici. Ha riconosciuto la necessità di impegnarsi, seppure si sia affrettata a indicare la linea dell'orizzonte "zero emission" al 2060.

Nei giorni scorsi la Cop26 ha affrontato i temi dello stop alla deforestazione, fissato entro il 2030 da oltre cento Paesi, fra i quali Brasile, Cina, Russia, Canada, Usa, per una superficie pari all'85% delle foreste mondiali. Sul piatto sono stati messi anche 19,2 miliardi di dollari tra fondi pubblici e privati.
Impegno anche per ridurre le emissioni di gas metano di almeno il 30% entro il 2030, intesa fortemente voluta da Stati Uniti e Unione Europea, ma alla quale non hanno aderito Cina, Russia e India, che sono fra i principali Paesi produttori di metano.

 

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Sul fronte finanziario il pragmatismo del premier italiano Mario Draghi (uno che finalmente ha il giusto credito a livello internazionale) ha detto che i soldi potrebbero non essere un problema, se il settore privato sarà al fianco nella lotta al cambiamento climatico.

E giusto ieri, 3 novembre 2021, è stato annunciato l'impegno di 450 gruppi basati in 45 Paesi con lo scopo di destinare il 40% delle risorse monetarie mondiali alla lotta al riscaldamento, attraverso la Glasgow Financial Alliance for Net Zero (Gfanz), guidata dall'ex governatore della Banca d'Inghilterra, Mark Carney. La bocca di fuoco disponibile è di oltre 100 trilioni di dollari per finanziare la transizione ecologica in tre decenni, così da rendere più solidi gli strumenti di contrasto al clima. Bisognerà metterli a terra e, se parliamo di mobilità e trasporti, sarebbe opportuno democratizzare l'accesso alle auto elettriche, ancora troppo esclusive.

Finora l'attenzione all'agricoltura e al ruolo che può avere è rimasta sullo sfondo. Ma mancano ancora molti giorni alla chiusura del summit e sicuramente emergeranno indicazioni, obiettivi e missioni utili che l'agricoltura può compiere per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, dei quali è peraltro vittima. L'importante è che non si liquidi il ruolo dell'agricoltura sempre e solo con l'accusa di inquinare attraverso gli allevamenti, perché sono cliché che hanno fatto il loro tempo e dalla Cop26 ci si aspetta qualcosa di più autorevole e costruttivo.

Un'ultima annotazione italiana. Secondo il Rapporto G20 Climate Risks Atlas della Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc), l'Italia rischia di perdere fino a 58 miliardi di euro di Pil a causa dei cambiamenti climatici entro il 2050. Possiamo permettercelo?