Per fare una panoramica di tutto questo, abbiamo intervistato Giuseppe Cefalo, nuovo e giovane presidente di Unaapi, l'Unione nazionale associazioni apicoltori italiani, una delle maggiori realtà associative del settore, che comprende quattordici associazioni regionali, l'Aapi, l'Associazione apicoltori professionisti italiani alla quale aderisce la gran parte degli apicoltori professioni e il Copait, l'Associazione per la produzione e valorizzazione della pappa reale fresca italiana.
Giuseppe Cefalo, entrando subito nel vivo, quali sono oggi le maggiori problematiche dell'apicoltura professionale in Italia?
"L'apicoltura italiana ed europea devono confrontarsi con una serie di problematiche che stanno penalizzando enormemente le produzioni e che rappresentano al tempo stesso una seria minaccia per il benessere delle api. Consideriamo innanzitutto l'estremizzazione climatica che compromette sempre più frequentemente i raccolti rovinando le fioriture o impedendo secrezioni nettarifere interessanti, e che non permette uno sviluppo ottimale delle colonie di api. Poi va segnalata la decennale difficoltà di fare apicoltura nei territori in cui sono presenti colture agricole intensive (uva, nocciolo, frutta, ortaggi, cereali) con conseguente elevato impatto di agrofarmaci.
Altre problematiche generali, ma non meno rilevanti, sono la perdita di superfici e colture agricole di interesse apistico (come girasole, sulla, foraggere nettarifere), l'avvento di nuovi nemici delle api di origine esotica quali Aethina tumida e Vespa velutina, nuove fitopatologie di piante mellifere come il cinipide del castagno, la psilla dell'eucalipto che hanno limitato se non azzerato le produzioni di miele realizzabili su tali piante".
Di che numeri stiamo parlando in termini di aziende e alveari gestiti?
"L'anagrafe apistica nazionale, finalmente a regime, fotografa inconfutabilmente un settore che globalmente conta un patrimonio apistico di circa 1.250.000 alveari detenuti da circa 55mila apicoltori. Di questi circa 19mila hanno partita Iva e quindi esercitano l'attività apistica per finalità commerciali e la restante parte sono amatoriali in autoconsumo. Va segnalato che sul totale di alveari, gran parte - ben 880mila - è detenuto e curato dai 19mila allevatori con partita Iva, e fra questi circa 1.500/1.600 apicoltori - più specializzati e professionali - detengono circa 550mila alveari, ovvero quasi la metà del patrimonio apistico italiano".
Quale è oggi il mercato dei prodotti apistici in Italia?
"Nel 2017 Nielsen ha rilevato la vendita di 15.700 tonnellate di miele in Italia (totale Food category: Iper-Super-Grocery-Discount) per un fatturato di 146,8 milioni di euro. A questo dato va aggiunto il canale dello specializzato che comprende, per intenderci, negozi bio, farmacie ed erboristerie e la vendita diretta dell'apicoltore.
Il totale stimato del mercato del miele in Italia è quindi di circa 22mila tonnellate totali.
Il consumo pro capite italiano stimato dal iCrt per produzione e mercato del miele è di 0,513 kg/anno nel 2017, e comprende sia il consumo diretto che l'utilizzo per fini industriali. Il dato è in aumento rispetto al 2016 (4,9%), anche se siamo ancora ben lontani dai consumi di altri paesi europei come Germania e Grecia.
Oltre al miele, è in crescita il consumo della pappa reale e del polline nazionale che da qualche anno vengono venduti anche nella Gdo. Per entrambi i prodotti, il canale maggiormente utilizzato per la vendita è quello specializzato, in particolare la vendita diretta in azienda".
Ci si può ritenere soddisfatti?
"Il settore ha mostrato grande versatilità, capacità e spirito di iniziativa e resistenza ma si può e si deve fare di più. E' necessario impegnarsi su diversi fronti per garantire opportunità di sopravvivenza di api e apicoltori, per la difesa dei prerequisiti di qualità dei prodotti apistici destinati al mercato, per la valorizzazione e promozione dei prodotti apistici diversi dal miele che hanno potenzialità e margini di crescita, ma che stentano a decollare...".
Giuseppe Cefalo, presidente Unaapi, con il logo dell'associazione
E' di queste settimane la sua lettera al ministro Centinaio per chiedere restrizioni sull'importazione del cosiddetto 'pseudo-miele' cinese. Ma cosa davvero spaventa del miele proveniente dalla Cina?
"Che gran parte di quello cinese non è miele! La norma cinese di riferimento per la produzione di miele è, infatti, tutt'altro che equivalente a quella europea! Non risponde alle basilari normative internazionali ed europee che ne dettano le qualità irrinunciabili, che sono di riferimento obbligatorio negli scambi commerciali internazionali.
Il miele è un alimento eccezionale derivante dalla secrezione di piante alle quali le api aggiungono sostanza durante le fasi del trasporto, deumidificazione e stoccaggio. Si tratta di enzimi e vitamine che lo rendono un alimento vivo e unico. A questo alimento, frutto di questa straordinaria combinazione di fattori, secondo il Codex Alimentarius, la direttiva europea e la legge italiana non può essere aggiunto né sottratto niente, altrimenti il prodotto non può definirsi miele.
Il prodotto cinese viene spesso ritirato dagli alveari immaturo e non trasformato, con un quantitativo di acqua elevato, e deumidificato in laboratorio senza che le api possano compiere la loro lavorazione e maturazione che lo rende miele. A ciò si aggiungono processi di adulterazione basati su processi di microfiltrazione con resine, che lo privano dei pollini caratteristici. Seguono poi miscelazioni e tagli con miele europeo, per cercare di mascherare le caratteristiche di semplice prodotto zuccherino ben diverso da un buono e sano miele. Le frodi sono numerose e articolate e rischiano di mettere in ginocchio un mercato del prodotto nazionale e comunitario faticosamente costruito anche grazie all'obbligo per le 'miscele di mieli' in particolare, dell'indicazione in etichetta dei paesi d'origine. Non possiamo più tollerare silenziosamente tali frodi e l'abbiamo documentato allegando alla missiva al ministro la normativa cinese con tutte le sue strane dimenticanze".
Ma quale è il mercato del miele cinese in Italia oggi?
"Nel 2017 l'Italia ha importato circa 4mila tonnellate di miele dalla Cina, con un valore del miele all'importazione diretta mediamente poco sopra all'euro. L'importazione dalla Cina copre grosso modo in Europa e in Italia circa un quarto del fabbisogno del mercato.
In parte questo prodotto è utilizzato dall'industria dolciaria mentre il resto viene veicolato - dichiaratamente o meno - prevalentemente nei discount per l'offerta di 'primo prezzo' e in modo da non evidenziarne il paese d'origine. La dizione commerciale, infatti, di 'miscela di mieli d'origine europea ed extraeuropea' si limita a informare il consumatore che il miele proviene dalla Terra e non dalla Luna o altri pianeti".
Unaapi è stata da sempre in prima linea per la sensibilizzazione, per non dire la lotta, contro l'uso dei fitofarmaci, in particolare dei neonicotinoidi. Il bando Ue su imidacloprid, clothianidin e thiamethoxam quindi è una vittoria o le preoccupazioni restano?
"L'Unaapi è stata, nel panorama europeo delle associazioni apistiche, capofila in questa lunga, impegnativa ed estenuante battaglia per portare alla ribalta una realtà di campo e scientifica incontestabile, che non poteva che comportare la messa al bando dei tre neonicotinoidi. Consideriamo questo risultato un grande successo, arriva dopo un faticoso e difficile percorso iniziato nei primi anni del 2000 che alla fine ha portato al bando di questi insetticidi, fra i più utilizzati al mondo, non per le conseguenze sulla salute dell'uomo, ma specificatamente per il danno alla salute di pronubi e ambiente. E' la prima volta che un provvedimento precauzionale di tale portata viene deciso con questa importante e nuova priorità.
Non possiamo tuttavia essere ancora soddisfatti, perché sono ancora molto deboli i segnali di una svolta di indirizzo delle politiche agricole verso metodi di produzione meno impattanti dal punto di vista chimico e maggiormente eco-sostenibili. Una delle maggiori problematiche emerse negli ultimi mesi, è la massiccia contaminazione ambientale delle acque superficiali da glifosate, sostanza di cui l'Ue non ha avuto il coraggio di bandirne l'uso. Una sostanza che, come dimostrano numerosi studi scientifici, causa danni diretti ed indiretti su flora e fauna e quindi anche sulle api, ma che è ampiamente sospettata di avere dirette e terribili implicazioni anche sulla salute dell'uomo".
Ma c'è un margine per riallacciare un rapporto costruttivo e reciprocamente vantaggioso tra apicoltori e agricoltori, anche convenzionali?
"Noi apicoltori siamo parte indispensabile e organica del mondo agricolo. Personalmente, ritengo che i diversi comparti agricoli debbano e possano comunicare di più e percorrere strade condivise che portano ad un generale vantaggio per tutti i settori. In tale direzione va la storica firma perfezionata a novembre 2017 dell'intesa per la salvaguardia degli insetti impollinatori, coordinata dal Mipaaf e fortemente promossa dall'Unaapi, che ha visto tra l'altro l'adesione di quasi tutte le rappresentanze agricole, dei contoterzisti, delle associazioni delle aziende sementiere e di altri importanti attori coinvolti direttamente o indirettamente nella produzione agricola. Un primo passo verso la piena consapevolezza che non si può più derogare da modelli di produzione agricola che mettano in campo pratiche e tecniche agricole rispettose degli insetti impollinatori.
A volte il semplice flusso di informazioni tra apicoltore ed agricoltore permette di salvare migliaia di famiglie d'api che verrebbero altrimenti uccise dall'uso e abuso di trattamenti chimici. In molti casi e regioni, gli strumenti normativi di salvaguardia ci sono, ma vengono spesso ignorati, semplicemente perché non conosciuti o colpevolmente aggirati; basti pensare ai divieti di trattamenti in fioritura e pre fioritura presenti da tempo nelle leggi regionali sull'apicoltura, che di fatto sarebbero, se rispettati, un primo ed elementare valido strumento per limitare pratiche agricole pericolose per le api".
Un'altra questione di attualità è stata la presa di distanza dalla Carta di San Michele all'Adige, con cui esponenti del mondo della ricerca stanno tracciando delle linee guida per la tutela delle sottospecie di api mellifiche italiane. Ma è indubbio che ci sia una sorta di 'inquinamento genetico' che sta portando a perdere caratteristiche peculiari di alcune di queste sottospecie. Qual è la proposta di Unaapi?
"Intanto va precisato che la presa di distanza dalla Carta delle associazioni apistiche nazionali, di cui Unaapi è sicuramente quella più rappresentativa, è stata dettata da questioni sia metodologiche che di sostanza. Essa è stata redatta da una parte del mondo scientifico, senza alcun coinvolgimento dei produttori apistici e delle loro rappresentanze, ai quali è stata negata la possibilità di partecipare alla stesura e proporre correttivi. Che piaccia o no, contrariamente a quanto si sostiene nel documento, negli ultimi decenni l'ape mellifera ha perso pressoché completamente lo status di animale selvatico e la sua stessa esistenza è strettamente legata alla conduzione apistica; qualunque progetto di salvaguardia che non passi attraverso la condivisione col mondo produttivo rischia di restare lettera morta. Chiedere di sottoscrivere un documento chiuso è metodologicamente scorretto, se si vuole la condivisione del mondo apistico.
Poi ci sono questioni di sostanza nella Carta, che non vengono considerate adeguatamente dal mondo scientifico che l'ha stesa. La tesi, secondo cui l'ecotipo locale è quello più adatto a svolgere il suo compito nell'ambiente con cui si è evoluto nel corso dei millenni, teoricamente ineccepibile, si arena contro i cambiamenti che l'ambiente stesso ha subìto a causa di antropizzazione, agricoltura, ingresso di flora esotica, cambiamenti climatici, che si susseguono a una velocità non certo compatibile con i tempi di adattamento evolutivo.
Unaapi è oggi promotore di un tavolo tecnico con la presenza di produttori apistici, allevatori di api regine, esperti di genetica, dal quale usciranno proposte condivise e percorribili per la difesa delle sottospecie autoctone; di cui è prioritario tracciare una mappatura sul territorio italiano. In buona sostanza si tratta di capire qual è il punto di partenza per poi formulare ipotesi percorribili su cui lavorare nel tempo".
Un documento contestato anche perché critico nei confronti di alcune pratiche apistiche considerate troppo intensive, come il nomadismo su lunga distanza e il commercio anche transnazionale di api regine. Ma, fatto salvo la sopravvivenza delle aziende, l'apicoltura professionale non è pronta ad accogliere richieste di una minore intensivizzazione, non troppo diverse da quelle che l'apicoltura chiede agli agricoltori?
"Gli elementi di criticità individuati dalla Carta, ma ancor più l'ordine con cui vengono proposti, tracciano un quadro fuorviante del fenomeno: sostenere, ad esempio, che 'il depauperamento delle sottospecie di A. mellifera stia provocando ripercussioni negative (...) sul sistema di produzione degli alimenti' è l'esatto contrario della realtà, così come mettere all'ultimo posto cosiddetti 'fattori di carattere ambientale di origine antropica', primo fra tutti il massiccio uso di agrofarmaci che caratterizza proprio lo stesso sistema di produzione degli alimenti.
È del tutto evidente che la Carta non considera adeguatamente, probabilmente perché volutamente ignorati o perché non conosciuti, gli elementi strutturali dell'apicoltura italiana ovvero densità e distribuzione degli alveari sul territorio nazionale, tecniche di allevamento e produzione consolidate, flussi degli spostamenti degli alveari su alcuni areali e fioriture, ecc.
Colpevolizzare la struttura produttiva dell'apicoltura italiana, ponendo l'accento solo sulla necessità di proteggere una sottospecie senza fornire proposte o ipotesi di lavoro, banalizza la questione indirizzandola su finalità di autoreferenzialità. Oggi la realtà produttiva nazionale ed europea ci dà una realtà in cui produrre miele e tenere le api in salute è diventato molto difficile; l'esigenza di sopravvivenza delle aziende apistiche italiane passa attraverso la differenziazione del rischio produttivo ed in tale ottica spostare alveari è un'esigenza di sopravvivenza più che un modo di incrementare le produzioni. Si spostano le api per tenere vive le aziende, ma anche per fuggire da avvelenamenti e dalla perdita di superfici bottinabili dalle api. Le annate apistiche negative sono ormai seriali in alcune zone a dispetto di un prodotto nazionale molto richiesto perché sicuro, tracciato e con chiara indicazione dell'origine sull'etichetta. Limitare le aziende significa farle morire per carenza di reddito e questo non possiamo permetterlo".
E cosa chiede Unaapi al mondo della ricerca?
"La ricerca agronomica e biologica italiana ha dato e continua a dare enormi contributi nel mondo scientifico europeo e mondiale all'accertamento delle conseguenze per gli equilibri ambientali delle pratiche produttive e di difesa sanitaria delle colture. Questo proprio per la sua natura pubblica. Peccato che questo comporti, come nel caso del progetto Beenet (bloccato oramai da anni) strani - se non equivoci - ostacoli e blocchi nel rifinanziamento di quest'ottima attività scientifica di monitoraggio e individuazione di cause e soluzioni.
Invece in campo meramente apistico (lotta a patologie e parassiti, genetica, selezione, metodologie produttive ecc...) in Italia si constata un progressivo degrado, anche per la continua ristrutturazione/eliminazione di centri di ricerca, per la carenza cronica di fondi e per, a volte, lo scarso legame tra ricerca ed effettive esigenze del mondo produttivo apistico.
Gli ambiti su cui lavorare sono tanti e tutti urgenti: monitoraggio ambientale attraverso l'utilizzo delle api, migliorare la produzione mellifera di alcune specie botaniche coltivate da tempo non più nettarifere, individuazione del collegamento tra comportamenti anomali delle api e agrofarmaci, miglioramento e selezione di caratteri genetici quali resistenza alle malattie, igienicità ecc...".