Sapevamo che sarebbe accaduto. In parte lo avevamo previsto già nel 2020 in una delle "pillole di regulatory". Al contrario mai avremmo ipotizzato, nemmeno nel peggiore degli incubi, che l'ignoranza (intesa come scarsa conoscenza delle norme) si sarebbe tradotta nella punizione più severa e compromettente.
Analizziamo l'accaduto. Durante la visita presso un agricoltore, un organismo di controllo biologico ha emesso un "rapporto di non conformità" motivato dall'uso di mezzi tecnici non registrati. In particolare si trattava di prodotti il cui impiego va segnalato in sezioni "libere" dei registri tenuti dagli imprenditori agricoli. A fronte di tale rapporto, l'OdC ha ritenuto opportuno applicare il massimo della pena: infrazione con conseguente sospensione della certificazione per sei mesi. L'agricoltore ha ovviamente presentato ricorso inviando corposa documentazione ma l'OdC lo ha rigettato ed ha confermato il provvedimento. Ci sembra opportuno ricordare la definizione di infrazione ai sensi del DM Mipaaf 15962/2013: inadempienza di carattere sostanziale che compromette la conformità del processo di produzione e che si caratterizza per avere effetti prolungati.
In dettaglio, la contestazione ha riguardato alcuni corroboranti che, a detta dell'OdC, hanno violato la normativa vigente per due motivi: 1) sono stati messi in commercio utilizzando un nome di fantasia e 2) i nomi commerciali non risultano nelle banche dati consultabili tramite il Sian.
Iniziamo dalla seconda considerazione per segnalare che, al momento, non esiste nessuna banca dati Sian relativa ai corroboranti. In realtà da tempo il Mipaaf ne parla ma purtroppo non è stato fatto ancora nulla e temiamo che, viste le difficoltà croniche del Sian, siano davvero poche le speranze che qualcosa possa essere fatto in tempi brevi.
La banca dati su Fitogest che conta oltre 100 prodotti non è ovviamente un documento ufficiale e forse è solo la punta dell'iceberg.
Al momento la norma prevede che la ditta responsabile dell'immissione in commercio di un prodotto "corroborante" debba trasmettere (via Pec) una comunicazione al competente ufficio del Mipaaf in cui dichiara che il corroborante risponde integralmente alle caratteristiche della tipologia cui appartiene e contiene esclusivamente le componenti dichiarate in etichetta. Con una nota del 2018 (mai pubblicata in G.U.) il Mipaaf ha anche chiesto di allegare all'autodichiarazione un facsimile di etichetta. Ne consegue che la violazione è priva di ogni fondamento normativo, né capiamo come possa aver fatto l'OdC a ricercare i nomi commerciali in banche dati inesistenti.
Torniamo alla prima contestazione: il corroborante è stato immesso in commercio con un nome di fantasia. È opportuno richiamare quanto previsto proprio dall'ultimo DM che tratta di corroboranti (10/3/20 - GU 152/2020) in cui si legge che, relativamente al nome commerciale, il DPR n. 290/2001 s.m.i. è vero che vieta nomi di fantasia ma questo non implica che tutti i prodotti commerciali debbano avere lo stesso "nome". In altri termini, il nome commerciale non è necessario che coincida con la tipologia di corroborante ma deve agevolmente consentirne l'identificazione. Non deve essere peraltro fuorviante rispetto ai contenuti e non deve trarre in inganno l'acquirente. In pratica significa che se un produttore di corroboranti ha etichettato il prodotto a norma di DM, usando il termine corroborante (a lettere maiuscole) associato alla denominazione tipologica di legge (es: polvere di roccia) ed il nome commerciale non trae in inganno il consumatore (non sarebbe consentito ad esempio: Afidi-Stop), nulla vieta di utilizzare anche un "nome". Segnaliamo, inoltre, che il Mipaaf quando riceve (allegata all'autodichiarazione) un facsimile di etichetta ritenuta non idonea, risponde al dichiarante chiedendogli di cambiare nome commerciale. Pertanto anche questa presunta violazione è ampiamente contestabile.
Torniamo, però, alla natura della contestazione stessa perché ci sembra che l'OdC abbia perso di vista un elemento fondamentale: anche ammettendo che un produttore di corroboranti non possa usare nomi di fantasia, quale sarebbe, da parte dell'agricoltore, l'inadempienza di carattere sostanziale che comprometterebbe la conformità del processo di produzione e che si caratterizzerebbe per avere effetti prolungati?
Forse l'uso del nome di fantasia fa perdere al prodotto quelle caratteristiche intrinseche e peculiari tipiche di un corroborante?
Siamo all'assurdo: si punisce l'utilizzatore finale per un'ipotetica (e tutta da dimostrare) irregolarità di etichettatura da parte del responsabile dell'immissione in commercio. È come se un fertilizzante consentito in agricoltura biologica non recasse in etichetta tutte le previste diciture di legge e, per questo, si sospendesse la certificazione bio all'agricoltore che ha usato quel prodotto.
Se proprio l'OdC avesse ritenuto di rilevare una così grave violazione delle norme, al più avrebbe potuto segnalare il fatto all'ufficio del Mipaaf deputato a ricevere le autodichiarazioni per chiedere di verificare se, alla ricezione della documentazione, fosse chiaro l'uso di un nome commerciale di fantasia.
Verso la fine dell'anno avevamo raccontato di un altro episodio di strana interpretazione delle leggi, in quel frangente si trattava della Repressione Frodi. Come in quel caso, anche la vicenda che coinvolge l'Organismo di Controllo, si protrarrà per molto tempo e con notevoli costi (diretti ed indiretti) da parte di tutti gli attori. Alla fine qualcuno pagherà ma, a prescindere da chi sarà vincitore, tanto in un caso quanto nell'altro, ci chiediamo se davvero le violazioni contestate siano tali da meritare più gradi di giudizio e se, al contrario, non sarebbe bastato un po' di buon senso per rendersi conto della pochezza delle cose contestate. Non vogliamo distrarre l'attenzione dicendo che ci sarebbero cose ben più gravi ed urgenti da sanzionare, se danno c'è stato è giusto che qualcuno paghi tuttavia è proprio il danno (o la frode) che, in tutti e due gli episodi, non riusciamo davvero a trovare.
10 gennaio 2022 Difesa e diserbo