In passato se dicevi agricoltura in Salento tutti pensavano agli olivi. Oggi non è più così. Dopo il disastro della Xylella, questo territorio si sta ripensando, diversificando le specie da coltivare. E se le varietà di ulivo resistente rappresentano sicuramente una grande opportunità, molti agricoltori guardano a nuove colture, come la frutta esotica, il mandorlo e perfino il fico d'India (Opuntia ficus-indica).


Wakonda è una startup lanciata da cinque imprenditori che ha acquistato 42 ettari di terreno, una volta dedicati all'olivicoltura, per la coltivazione del fico d'India. Una pianta originaria del Centro America, ma ormai presente in tutto il Bacino del Mediterraneo, dalla quale si possono ottenere farine per l'alimentazione umana e animale, prodotti cosmetici e nutraceutici, nonché biogas.

 

Abbiamo intervistato Andrea Ortenzi, tra i fondatori della startup, per capire qual è stata la genesi di questa avventura imprenditoriale e quali prospettive offre per il territorio salentino.

"Premetto che l'agricoltura è entrata nella mia vita soltanto di recente, gli ultimi cinque anni, anche se era nel destino, avendo conseguito la laurea in Economia e Commercio discutendo una tesi su agricoltura e sviluppo economico. Dopo l'università ho lavorato per circa dieci anni in Tim e ho fatto una lunga esperienza in Brasile".

 

È qui che hai conosciuto il fico d'India?
"In Brasile ho potuto toccare con mano come il fico d'India fosse utilizzato per mettere a reddito i terreni semidesertici del Nord del Paese: la coltivazione intensiva del fico d'india, in portoghese Palma Forrageira, ha consentito al Brasile di sostenere un piano di sviluppo che gli ha permesso di diventare il primo produttore ed esportatore di carne al mondo. E proprio in Brasile ho incontrato un mio ex compagno di università, il quale gestiva l'azienda della famiglia della moglie, coltivando, tra le altre cose, anche il fico d'India".

 

Il momento della piantumazione

Il momento della piantumazione
(Fonte foto: Wakonda)

 

Come siete passati dal Brasile al Salento?
"Dopo una serie di eventi, anche personali, siamo entrambi rientrati in Italia. Avevamo già in mente di fare qualcosa con il fico d'India, ma non avevamo idee messe bene a fuoco. Abbiamo quindi investito tempo ed energie a riflettere, a studiare e a pensare a come meccanizzare i processi produttivi. Abbiamo contattato aziende con cui sviluppare i macchinari di cui avevamo bisogno e abbiamo stilato un business plan per realizzare una coltivazione su larga scala di Opuntia. E siamo partiti dal Salento dove abbiamo fatto le prime prove in campo sul sistema che avevamo immaginato".

 

Come siete passati da una idea imprenditoriale sulla carta ad una realtà agricola produttiva?
"Dopo aver studiato bene l'argomento e aver coinvolto altri tre soggetti in questa 'pazza impresa', abbiamo deciso di gettare il cuore oltre l'ostacolo ed abbiamo fondato Wakonda a fine 2021: dopo aver effettuato una prima raccolta fondi all'interno della nostra rete di conoscenze personali e professionali, nel marzo del 2022 abbiamo acquistato 42 ettari di terreni a Lecce, nella zona che confina con il Parco del Rauccio, in prossimità di Torre Chianca, nel cuore del Salento".

 

Quali sono le attività che avete svolto inizialmente?
"Ci siamo mossi su più fronti: abbiamo sviluppato delle macchine per automatizzare le operazioni colturali, abbiamo iniziato a piantumare i terreni, stiamo iniziando la realizzazione di un impianto di biogas e nel frattempo sviluppiamo prodotti alimentari a base di farina di fico d'India".

 

Parliamo un attimo del fico d'India, che pianta è?
"È una pianta grassa originaria del Centro America, dove viene utilizzata per innumerevoli usi. È una pianta diventata autoctona nel Bacino del Mediterraneo, tant'è che storicamente in Salento è usata per marcare i confini tra proprietà diverse. In zootecnia può essere data da mangiare tal quale agli animali, ma può essere trasformata in farina da miscelare con altri cereali per l'alimentazione umana. Nella tradizione messicana viene usata fresca per curare le scottature e il succo che si può ottenere è un ricostituente dopo un'attività fisica intensa o quando si eccede nel consumo di alcol. È una pianta rustica, che ha bisogno di poca cura per crescere rigogliosa, con una impronta idrica bassissima".

Che tipo di coltivazioni portate avanti e quali sono le produzioni?
"Il sesto d'impianto è di 40 centimetri, quindi molto serrato, e il taglio avviene una volta l'anno. La produzione è di circa 800-mille tonnellate ad ettaro di biomassa. La pianta non ha bisogno di particolari cure, né a livello di concimazione né di difesa. È una fenomenale barriera tagliafuoco ed ha notevoli capacità di biorimediazione: è in grado di riequilibrare i terreni che hanno perso fertilità o che hanno subìto danni da inquinamento. Da qui il nome di Wakonda".

Che cosa significa Wakonda?
"Gli indigeni nordamericani attribuiscono al dio Wakonda la creazione ed il mantenimento dell'equilibrio sulla Terra. A noi è piaciuta l'idea di associarlo alla coltivazione del fico d'India, in quanto questa pianta ha la capacità di arricchire i suoli di sostanza organica ed è dunque in grado di ridare vita ai terreni marginali, cominciando dal nostro amato Salento".

 

Hai parlato anche di meccanizzazione, come vi siete mossi su questo fronte?
"In Brasile, dove la manodopera è a bassissimo costo, tutte le operazioni colturali sono effettuate a mano. Opzione impensabile in Italia. Per questo abbiamo lavorato con la ditta Spapperi, che produce macchine agricole specializzate, per realizzare una trapiantatrice meccanica per mettere a dimora le pale di Opuntia, da cui poi si generano le nuove piante. Inoltre abbiamo anche sviluppato una raccoglitrice meccanizzata per cui abbiamo iniziato le pratiche di registrazione brevettuale".

 

Alcune operazioni colturali

Alcune operazioni colturali

(Fonte foto: Wakonda)

 

Quando prevedete di diventare produttivi?
"Questa primavera abbiamo piantato i primi ettari, che potremmo già raccogliere nella primavera dell'anno prossimo. A differenza delle coltivazioni storiche di fico d'India, come quelle di San Cono, noi non siamo interessati ai frutti, ma raccogliamo le pale prima che fioriscano. Inoltre teniamo sempre basse le piante, senza farle lignificare".

Come lavorate le piante?
"L'80-90% della biomassa che costituisce una pala di fico d'India è acqua. Noi abbiamo realizzato un macchinario per estrarla, essiccando poi ulteriormente i tessuti vegetali fino ad arrivare ad un 7-10% di acqua".

Quali sono i prodotti che avete intenzione di lanciare sul mercato?
"Già l'acqua del fico d'India può essere la base per sviluppare prodotti per l'alimentazione umana, avendo proprietà idratanti, emollienti e ricostituenti: tra l'altro il mercato delle cosiddette 'acque aromatizzate' sta avendo una crescita anno su anno. L'acqua di fico d'India ha una grossa quantità di calcio, importantissima in particolare con le persone allergiche o intolleranti al lattosio, cosa fondamentale per la prevenzione dell'osteoporosi".

 

Quali altri impieghi pensate?
"La frazione solida delle pale verrà invece trasformata in farina destinata all'alimentazione umana oppure alla preparazione di mangimi altamente proteici, che una volta essiccati e pellettati possono essere conservati a lungo e trasferiti a centinaia di chilometri".

 

Il sesto d'impianto è di 40 centimetri, quindi molto serrato, e il taglio avviene una volta l'anno. La produzione è di circa 800-mille tonnellate ad ettaro di biomassa

Il sesto d'impianto è di 40 centimetri, quindi molto serrato, e il taglio avviene una volta l'anno. La produzione è di circa 800-mille tonnellate ad ettaro di biomassa

(Fonte foto: Wakonda)

 

C'è mercato per questi prodotti?
"Fino ad oggi la bassa disponibilità di prodotto e l'elevato prezzo di vendita hanno fatto sì che la farina di fico d'India non fosse interessante che per una nicchia molto ristretta di consumatori. Le innovazioni che abbiamo introdotto ci consentiranno di produrre grandi quantità a prezzi molto inferiori. Stiamo sviluppando, insieme a chef e ad aziende di trasformazione agroalimentari, nuovi prodotti altamente salutistici che conterranno una percentuale variabile di farina di fico d'India (7-10%)".
 
Perché un consumatore dovrebbe mangiare un prodotto contenente farina di Opuntia?
"Perché è una farina che ha delle proprietà uniche. Ad esempio rallenta, quasi azzerandolo, l'assorbimento dei lipidi e regola quello dei carboidrati, evitando il famigerato picco glicemico che si ha quando si assumono carboidrati semplici. Una mano santa che aiuta a prevenire o supporta le terapie farmacologiche per le cosiddette 'malattie da benessere': iperglicemia, diabete, ipertensione, colesterolo alto, eccetera".

Poi c'è anche l'impianto di biogas, di cui avete annunciato da poco la costruzione…
"Il biodigestore non sarà il core business dell'azienda, ma assolve ad un duplice scopo. Da un lato infatti l'energia elettrica che produrremo sarà immessa in rete e contribuirà alla sostenibilità economica dell'azienda, soprattutto nei primi anni. Ma cosa ancora più importante, il calore prodotto dalla combustione del metano sarà utilizzato per essiccare la materia prima vegetale, chiudendo il cosiddetto processo di economia circolare".

 

Ci puoi dire qualcosa in più dell'impianto di biogas?
"Si tratta di un biodigestore da 300 kW realizzato dalla ditta Sebigas, che sarà alimentato principalmente con pale di fico d'India tal quale e con gli scarti della lavorazione. Abbiamo intenzione tuttavia di ritirare presso le aziende agricole della zona anche scarti agricoli, nonché liquami e pollina, fornendo in cambio il digestato per la fertilizzazione dei campi".

 

Come ha reagito il territorio alla vostra attività imprenditoriale?
"Il Salento è una comunità agricola profondamente segnata dalla sciagura della Xylella. Alcuni rimangono ancorati alla tradizione dell'olivicoltura, mentre altri guardano ad alternative. Soprattutto all'inizio eravamo guardati con un certo stupore e sospetto, in quanto il fico d'India è considerato qui alla stregua di una malerba e soprattutto non se ne conoscevano i molteplici usi che se ne possono fare. Tuttavia l'interesse sta crescendo e penso che questa pianta possa contribuire a ridare speranza all'agricoltura in Salento".

 

In quale modo?
"Ci sono migliaia di ettari, oggi abbandonati, che potrebbero ospitare coltivazioni di Opuntia. Una pianta che ha la possibilità di essere inserita con successo nella filiera della produzione di bioenergia, di cui il nostro Paese ha estremo bisogno. Essendo richiesti investimenti importanti per questa tipologia di impianti, al punto da essere una delle linee di finanziamento del Pnrr, si sta accendendo l'interesse delle compagnie energetiche. Il legislatore, con importanti modifiche legislative occorse negli ultimi nove mesi (il cosiddetto Decreto Biometano e Decreto Pnrr Ter) ha peraltro teso a mettere le aziende agricole al centro del campo di gioco, garantendo delle semplificazioni nelle concessioni delle autorizzazioni per la costruzione degli impianti".

 

Quali reazioni ci sono a livello territoriale?
"Occorre sollecitare un interessamento della politica e delle amministrazioni locali per sostenere questa filiera, avendo chiaro che spesso le carenze di organico o di figure con competenze che precedentemente erano demandate alla regione, possono preoccupare anche l'amministratore locale più avveduto, proattivo e preparato".