Etichetta d’origine: croce e delizia dell’alimentare made in Italy. Da un decennio, ormai, l’obbligo di indicare in etichetta l’origine della materia prima è il vero tormentone che agita, per motivi diversi e per interessi diversi, organizzazioni agricole e industria alimentare.
Con buona pace della filosofia di filiera, su questo fronte è scontro vero.

La battaglia, con alterne fortune, è stata avviata dalla Coldiretti, che già all’epoca di Alemanno ministro dell’Agricoltura, aveva posto la questione in cima alle sue rivendicazioni, in nome della trasparenza in difesa dei consumatori e del legittimo interesse  dei propri produttori.  Più tiepida Confagricoltura, che con meno enfasi segue a rimorchio. Sul fronte della trasformazione, favorevole all’etichetta d’origine è schierato compatto il sistema delle cooperative, che proprio sui conferimenti della materia prima da parte dei soci basano un tratto essenziale della loro “distintività”.

Sul fronte opposto della barricata c'è l’industria di trasformazione, che vuole avere le mani libere nell’uso degli ingredienti agricoli, ricordando che per la qualità dell’alimentare made in Italy è sì importante la materia prima, a partire ovviamente da quella italiana (in troppi settori è però ampiamente insufficiente), ma l'eccellenza finale si raggiunge con la ricetta, il saper fare e quel mix di tradizione e innovazione
E per quanto riguarda la nazionalità del prodotto, ricordano gli industriali, vale il principio comunitario della cosiddetta “ultima lavorazione sostanziale”.

Come in tutte le vicende normative, ovviamente, il ruolo decisivo spetta al legislatore. Ma anche qui, le cose non sono così semplici.
Da una parte c’è il Parlamento italiano, schierato a favore dell’introduzione delle etichette d’origine come testimonia la legge approvata già all’inizio del 2011, con un inedito schieramento bipartisan al 100%.
Dall’altro le istituzioni comunitarie - alle quali un’importante fetta di sovranità in materia agricola e agroalimentare è stata già ceduta da quel dì – che hanno in linea di massima, per motivi di concorrenza sul mercato, un atteggiamento contrario. E a volte anche contraddittorio.
E’ questo lo scenario in cui va inquadrata l’ultima bagarre sul problema etichetta, rilanciata nei giorni scorsi dalla Coldiretti che, stanca di aspettare e vedere deluse le tante promesse, si è scagliata contro il governo che – a detta di Palazzo Rospigliosi – sarebbe "ostaggio" delle lobby industriali che impediscono, a quasi due anni dall’approvazione della legge italiana, l’emanazione dei decreti attuativi previsti dalla norma generale.

Una denuncia rilanciata anche dai senatori della Commissione Agricoltura, che di quella legge erano stati i promotori.

Una dura presa di posizione che, di fatto, chiama in causa i due ministri competenti a emanare i decreti attuativi, Corrado Passera dello Sviluppo economico e Mario Catania delle Politiche agricole e agroalimentari.
Proprio i due ministri che, non più di qualche mese fa, erano intervenuti all’assemblea nazionale della Coldiretti. E dal palco, di fronte all’incalzare del presidente Coldiretti e l'incessante sventolio di "bandiera gialla", avevano promesso il loro impegno a condurre in porto l’operazione-etichetta d’origine.

Soprattutto Catania, che per ruolo istituzionale (ora da ministro e prima ancora come dirigente dello stesso dicastero) è il più sensibile alle istanze del mondo agricolo, non ci sta a farsi tirare per la giacca e replica alle critiche provenienti dal fronte politico, ricordando quello che aveva già detto di fronte all’affollata platea dell’assemblea coldirettiana: di ritenere la trasparenza delle etichette d’origine un obiettivo da perseguire fino in fondo, di trasparenza nei confronti dei consumatori e di giusto riconoscimento per il ruolo degli agricoltori come fornitori delle materie prime. Ma tutto questo, sottolinea, non è materia di esclusiva competenza nazionale, va contrattato e regolamentato con Bruxelles.

E a conferma di ciò, ha ricordato con l'ormai famosa frase “io c’ero” le battaglie che lui stesso aveva sostenuto, come alto dirigente ai tavoli comunitari, per ottenere il via libera all’etichetta d’origine che per molti prodotti è già una realtà, come l’olio d’oliva e l’ortofrutta.

In effetti, un po’ di fieno in cascina, su questo fronte, si è riusciti a portare a casa. Ma va anche detto che si è trattato di volta in volta di singoli prodotti, spesso all’interno di negoziati più ampi, che avevano al centro la riforma dell’Ocm di quel singolo settore.
Con l’eccezione del latte fresco, per il quale l’ostinazione dell’allora ministro Alemanno, pressato anche lui dalla Coldiretti, riuscì a spuntare una norma ad hoc che ha trasformato l’etichetta del latte fresco in una sorta di carta d’identità, con le coordinate non solo dell’origine italiana, ma anche il luogo e la provenienza della stalla.

Eccezioni che confermano la regola, verrebbe da dire.
Ma che confermano anche che, per quanto la battaglia sull'etichetta possa essere legittima, proprio la vicenda del latte fresco ha dimostrato che l'obbligo di indicare sui cartoni e sulle bottiglie l'origine del latte non ha migliorato di un millimetro la posizione contrattuale ed economica dei produttori di latte.
Una vittoria di Pirro, come confermano le difficoltà con cui stenta a partire il negoziato sul prezzo del latte in Lombardia denunciate recentemente da Confagricoltura.

Mentre a Roma si discute, anzi si litiga, il mercato è già stato espugnato.