Fa discutere la nuova ordinanza del commissario straordinario alla peste suina africana, Giovanni Filippini, emessa in questi giorni.

Dopo i nuovi casi della patologia sia nei cinghiali sia nei suini, e tenuto conto che la precedente ordinanza è scaduta a fine settembre, si è deciso di aggiornare le iniziative tese a contrastare la diffusione del virus.

Sino al prossimo 31 marzo (sperando non serva poi una proroga) si dovranno rispettare le nuove regole che sembrano togliere efficacia all'abbattimento dei cinghiali per puntare, ancora una volta, sulle barriere tese a limitare lo spostamento di questi selvatici.

 

Barriere e autostrade

Vediamone alcuni passaggi. All'articolo 1 la prima misura indicata è "contenimento della popolazione di cinghiali selvatici nelle zone soggette a restrizione attraverso il rafforzamento delle barriere stradali e autostradali o eventuale costruzione di ulteriori barriere".
Questa delle barriere fisiche è una delle soluzioni proposte all'indomani dei primi casi di peste suina africana fra Piemonte e Liguria.

Quelle già realizzate sono costate molto, ma non sono servite, come dimostra la progressione del virus.

 

Certo, possono essere utili, ma a quanto pare non sono risolutive.

Senza contare i tempi necessari per costruire le nuove e rafforzare quelle autostradali, la cui realizzazione dovrebbe essere affidata alle stesse società di gestione delle autostrade.

Difficile immaginare sia una delle loro priorità.

 

Limiti alla caccia

Il depopolamento dei cinghiali viene al secondo punto, ma come vedremo con alcune preoccupanti limitazioni.

L'ordinanza prevede infatti l'istituzione di "zone di controllo dell'espansione virale", che coincidono con le aree dove sono state realizzate le barriere anti cinghiale.

In queste aree la caccia al cinghiale è vietata, salvo esplicite autorizzazioni della stessa struttura commissariale.

Ma la caccia è vietata anche nelle aree soggette a restrizione di categoria uno.

 

Limitazioni sono previste poi per le zone infette e interessate alle restrizioni di secondo e terzo livello.

In queste ultime è vietata l'attività venatoria collettiva (più di tre persone e più di tre cani).

 

Controllo faunistico

L'ordinanza precisa che il controllo faunistico sarà coordinato dalla struttura commissariale che si avvarrà di ditte specializzate (?), forze armate (al momento 177 persone) e altre figure, non meglio precisate. Basteranno?

Intanto accontentiamoci di sapere che nelle zone libere da restrizioni di ogni tipo gli enti locali potranno attuare il Piano Straordinario di Cattura e Abbattimento, ma dovranno rispettare i limiti fissati annualmente dai piani di eradicazione, che cambiano di anno in anno. Una complessità che non invita all'ottimismo.

 

Biosicurezza al primo posto

Più che con i cinghiali l'ordinanza sembra prendersela (per alcuni versi a ragione) con i suini allevati in condizioni di biosicurezza precaria.

Nelle zone di restrizione chi non rispetterà queste misure di prevenzione si vedrà svuotare l'allevamento e in caso di abbattimento non ci saranno indennizzi.

 

Per gli allevamenti di piccole dimensioni, definiti "familiari" e privi di misure di biosicurezza (la maggior parte) non c'è scampo.

Se rientrano nelle aree soggette a restrizione si vedranno svuotare gli stalli e sacrificare gli animali, senza possibilità di riprendere l'attività.

Doverosa l'attenzione per gli allevamenti semibradi nelle aree non infette, dove il rischio di contrarre l'infezione è più elevato.

 

I punti critici

Questi, in estrema sintesi, gli aspetti più rilevanti dell'ordinanza commissariale, sulla quale non tutti sembrano essere d'accordo.

Da parte del sindacato dei veterinari impegnati nelle strutture pubbliche (Sivemp), per voce del segretario nazionale Aldo Grasselli, arriva un accorato invito per la messa a punto di piani pandemici che tengano conto di tutti gli aspetti della sanità pubblica veterinaria.

Senza risparmio va intensificata l'attività di vigilanza e per questo si auspica un potenziamento dei servizi veterinari e degli zooprofilattici.

Senza una adeguata preparazione si corre il rischio di rincorrere questa o altre emergenze sanitarie che costano assai più di ogni prevenzione.

 

Pochi soldi

Per i rimborsi agli allevatori il Decreto Omnibus ha messo a disposizione 10 milioni di euro, che Uniceb, l'Unione Italiana della Filiera delle Carni, giudica insufficienti.

Il modello scelto include solo gli allevatori e dimentica il deprezzamento degli animali vivi.

Sulla stessa lunghezza d'onda Assica, l'Associazione degli Industriali delle Carni e dei Salumi, che rinnova la sua richiesta di abbassare l'Iva sui prodotti della suinicoltura.

 

Scende in campo anche la politica, che con un'interpellanza parlamentare denuncia la necessità di spostare da una regione all'altra le carcasse di animali infetti per la carenza di inceneritori, problema che affligge in particolare la Lombardia dove sono concentrati molti allevamenti e dove la pressione del virus è maggiore.

 

Cambio di passo

Eradicare la peste suina africana è cosa impegnativa che richiederà tempo e tutti ne sono consapevoli.

Si spera di non replicare la negativa esperienza maturata in Sardegna, che ha richiesto oltre 40 anni per eliminare il virus.

Non è casuale che il risultato sia stato raggiunto solo in questi ultimi anni, dopo l'introduzione di misure più severe rispetto al passato.

 

Lo stesso Filippini, ora alla guida della struttura commissariale, figura fra i protagonisti di quel cambio di passo.

Un'esperienza che andrebbe replicata a livello nazionale.

Senza timori di scontentare nessuno, nemmeno talune sensibilità animaliste.

Salvare pochi cinghiali sacrificando migliaia di suini non risolverà il problema.