Diceva un amico cinico a proposito della guerra alle porte: "Speriamo bene, in Italia non sappiamo neanche fronteggiare l'invasione dei cinghiali". In effetti, se non siamo mai stati popolo di aggressivi guerrieri (ed è un bene), oggi non lo siamo neanche di cacciatori.
Tanto che per arginare la peste suina da tempo incombente nelle maggiori aree suinicole del Paese oggi schieriamo proprio l'Esercito: 177 soldati saranno infatti impegnati per attività di "bioregolazione" ovvero di caccia ai cinghiali, il principale vettore della temibilissima patologia veterinaria. Come al solito, fra mille tentennamenti e con drammatico e colpevole ritardo, gli amministratori pubblici cercano di rimediare in extremis a quanto non fatto.
Nelle scorse settimane il Canada ha chiuso le porte ai salumi italiani, una operazione che - si mormorava fra le corsie del Cibus di Parma - potrebbe essere ripetuta a breve dagli Stati Uniti. Da notare bene però che Svizzera, Giappone, Cina e Taiwan avevano già chiuso le frontiere alle prime avvisaglie, ovvero ai primi ritrovamenti di cinghiali infetti nel lontano gennaio 2022. Prime avvisaglie che avrebbero dovuto esser prese in debita considerazione.
Nel giugno dello scorso anno fu effettuata una ispezione nelle prime zone colpite da parte della Ue (Dg Sante) che, pur promuovendo quando fatto dal sistema veterinario, metteva in rilievo l'incapacità delle autorità regionali di raggiungere gli obiettivi di abbattimento di cinghiali prescritti. Una incapacità forse dovuta non solo a fatalismo e inettitudine, ma alla paura di urtare la sensibilità degli animalisti.
A questi va doverosamente ricordato che la patologia può provocare una totale ecatombe di suini (di allevamento e selvatici). E non vogliamo poi pensare ai "salti di specie" che - dovremmo aver capito dopo il covid-19 - non fanno parte solo della letteratura di fantascienza.