Il prezzo medio della Cun è stato pari a 1,711 euro/chilogrammo.
Anche il calo del mais ha contribuito a migliorare l'indice Crefis, dato appunto dal rapporto fra quotazione degli animali e costo del mais.
Bene anche i suini da allevamento, che hanno segnato un +2,7% su base congiunturale e +18,7% su base tendenziale.
Se non nel dettaglio, questa ripresa l'aveva prevista con anticipo Guglielmo Golinelli, allevatore di Mirandola (Mo) e da qualche mese componente dell'Osservatorio del mercato delle carni bovine e suine, naturalmente come rappresentante della parte suinicola.
Con 300 ettari coltivati a pomodoro, orticole e cereali e 1.100 scrofe allevate a ciclo aperto, per una produzione totale di 20mila suinetti all'anno, l'allevamento di Golinelli è una delle realtà all'avanguardia nel Modenese.
E non è ancora a pieno regime, dal momento che l'azienda sta rialzando la testa dopo essere stata colpita dal sisma che nel maggio 2012 provocò diversi danni nell'area fra Emilia e Lombardia Sud-Orientale.
"Andiamo avanti e, fra i progetti in corso, stiamo finendo di negativizzare l'allevamento dalla malattia di Aujieszki", afferma Golinelli, laureato in Scienza delle produzioni animali all'Università di Bologna e in Economia e gestione del sistema agroalimentare alla Cattolica di Cremona nel 2014, con una tesi sull'etichettatura e una posizione critica rispetto alla formula di indicazione di provenienza così come impostata dall'Unione europea.
"Si tratta di un'etichettatura parziale, imperniata sulla carne fresca, non sui prodotti di salumeria - accenna l'allevatore -. Avremmo dovuto incidere invece sull'informazione legata alla provenienza delle carni destinate ai salumi, alle cosce per i prosciutti, spiegando ai consumatori in maniera trasparente. Altrimenti continueremo ad essere di fronte a delle asimmetrie".
Qual è la situazione della suinicoltura?
"Questo è il miglior periodo degli ultimi dieci anni per la suinicoltura, in termini di prezzi. Le previsioni sono positive per lo scenario internazionale cinese. Ne beneficiano soprattutto le carni suine provenienti da Germania, Olanda, Danimarca e Spagna. E ora, speriamo, anche l'Italia".
Si aspettava l'apertura del mercato?
"Diciamo che l'auspicavo, ma non immaginavo che si sarebbe arrivati ad accettare quello che era poi un passaggio naturale, cioè la regionalizzazione del certificato sanitario, stante le situazioni in Sardegna, Calabria e Campania, dove non si riesce a risolvere epidemie come la vescicolare o la peste suina africana.
Credo che si dovrebbe valutare una soluzione di stamping out in quelle realtà e poi vietare l'allevamento brado in modo da evitare i contatti con gli animali selvatici e non rischiare di penalizzare, come è avvenuto per anni, la macroregione agricola del Nord, che produce oltre l'80% della carne suina made in Italy".
Quali prospettive offre la Cina?
"Molto ampie, sia in termini di carne suina che di quinto quarto. C'è una grande tradizione di consumo di carne suina e penso che gli spazi, in un paese di oltre 1,2 miliardi di persone, siano davvero significativi. Il mercato cinese ha la necessità di importare, in seguito al piano nazionale che ha adottato e che porterà nel giro di un paio d'anni a una ristrutturazione profonda del modello di allevamento, impostato sulla professionalità.
In questa fase l'Unione europea, anche grazie a una moneta unica debole, sembra essere avvantaggiata rispetto a Sudamerica e Stati Uniti".
L'Italia ha le medesime possibilità di altri grandi player europei della suinicoltura?
"Ad oggi no. E questo sia per il peso reale della valuta, che di fatto assicura maggiore competitività alla Germania o alla Francia, sia perché possono contare su piattaforme distributive più efficienti. Pensiamo alla Spagna: è balzata al primo posto dell'export comunitario, grazie a politiche di sostegno delle filiera, che da noi sono molto più complicate. Questo, di fatto, penalizza tutto il sistema suinicolo italiano".
Il comparto vive da anni il problema di malfunzionamento della Cun. Qual è la sua posizione?
"La Commissione unica nazionale era un'ottima idea, che però è stata lasciata naufragare. Il principio era corretto e si ispirava all'obiettivo di arrivare alla formazione di un prezzo che fosse realmente legato all'andamento del mercato. Invece non ci si è mossi dalle dinamiche solite, in cui il mercato si vede poco nella formazione del prezzo".
Quali correttivi sarebbero necessari?
"Il valore reale del suino è strettamente collegato al valore del prosciutto, ma questo non ha effetti diretti sul prezzo di mercato. In passato Gabriele Canali, direttore del Crefis, aveva ipotizzato una serie di elementi utili per arrivare a una definizione del prezzo, come ad esempio i consumi, l'andamento storico, il peso alla macellazione, il costo della materia prima, i volumi di import e di export, il numero di animali macellati.
Eppure, ad oggi non sono variabili prese in considerazione per arrivare alla definizione dei listini. Ci si basa ancora più sulle suggestioni e su elementi lontani dall'oggettività".
Dall'Europa potremmo attenderci un aiuto?
"Sì, a patto che si riconosca la specificità della suinicoltura italiana. Altrimenti gli strumenti messi a disposizione da Bruxelles rischiano di non essere efficaci.
Nell'Ocm unica si fa riferimento, ad esempio, al ricorso dell'ammasso privato come forma di sostegno in caso di crisi di mercato. Nell'individuazione di un prezzo soglia al di sotto del quale attivare lo stoccaggio, però, individuare un prezzo di riferimento europeo è penalizzante. La Griglia (S)Europ, infatti, non tiene adeguatamente conto della specificità del suino pesante allevato in Italia. La classe R vale appena il 2% della suinicoltura europea, ma è molto importante per l'Italia.
Noi abbiamo preferito subire un modello comunitario che di fatto non ci permette di sfruttare adeguatamente uno strumento di intervento che potrebbe dare una spinta ai prezzi. Bisognerebbe intervenire e chiedere che il modello di allevamento italiano possa contare sui medesimi strumenti di tutela".
Cosa dobbiamo imparare da realtà come Germania, Danimarca, Olanda e Spagna?
"A rifuggire schemi pericolosi, ad essere imprenditori e a investire negli allevamenti. Sono paesi in cui hanno indirizzato la suinicoltura verso un aumento del benessere animale, degli standard sanitari, per raccogliere miglioramenti sia in chiave produttiva che di qualità della produzione. Meno malattie significa migliore redditività.
Dovremmo anche imparare a non essere vittime di ambientalismi eccessivi. Le ideologie e gli estremismi non hanno mai portato risultati positivi. Il caso dell'Emilia Romagna è emblematico, perché sull'onda del sensazionalismo ha perso in 15 anni un numero rilevante di allevamenti. Si sarebbe invece dovuto sostenere l'innovazione e la costruzione di strutture nuove".
Quale pratica introdurrebbe per migliorare le condizioni igienico sanitarie?
"Devo fare una premessa. Le condizioni in Italia sono molto diverse da quanto vogliono far credere gli ambientalisti. Gli allevatori sono i primi che sanno che un ambiente favorevole all'allevamento significa migliore produttività, più salubrità e di conseguenza redditi migliori.
Una pratica che potrebbe essere introdotta e che in altri paesi è praticata è quella dei vuoti sanitari, anche ogni 7, 8 o 10 anni, ma credo che potrebbe migliorare molto alcuni aspetti sanitari. Con questo non voglio affatto accreditare gli allarmismi di animalisti e affini".
Ci sarà spazio per la suinicoltura nel Primo pilastro della Pac?
"Adesso rischia di non esserci, perché con i prezzi attuali temo possa passare il concetto che la suinicoltura non ha bisogno di essere inserita fra le categorie in grado di beneficiare degli aiuti. Credo però che la suinicoltura avrebbe tutte le ragioni per essere compresa nel sistema di aiuti. E' anche difficile che in una situazione di sovrapproduzione si pensi ai sostegni di mercato, ma io credo che si debba affrontare il problema anche da una logica nuova".
Quale?
"La Commissione europea si sta concentrando a trovare nuovi sbocchi di mercato. Va senz’altro bene, alla luce del calo dei consumi che nell'ultimo anno è stato del 10%, ma bisognerebbe allo stesso tempo monitorare le situazioni a rischio e controllare approfonditamente il rispetto dei parametri di biosicurezza, di benessere animale, di utilizzo degli antibiotici.
Dobbiamo evitare che il mercato scivoli di nuovo a 1 euro al chilogrammo, perché con simili condizioni gli allevamenti chiudono".
Qual è il breakeven, oggi?
"Dipende chiaramente dalle singole aziende e dal tasso di efficienza, ma siamo intorno a 1,250 euro al chilogrammo".
Nella ripartizione dei 500 milioni di euro stanziati dall'Unione europea, la suinicoltura è rimasta decisamente ai margini. Che cosa avrebbe fatto?
"Personalmente, se avessi potuto decidere avrei pianificato una campagna di sensibilizzazione sul consumo di carne, valorizzando il made in Italy, puntando all'etichettatura del 100% italiano sia sul trasformato che sulle carni fresche".