Aumenta ogni giorno il numero di batteri resistenti agli antibiotici. Il problema è noto da tempo e in più occasioni gli animali e le pratiche di zootecnia intensiva sono finite sul banco degli imputati, additate come responsabili di questa minaccia alla salute dell'uomo e degli stessi animali.

In realtà le responsabilità degli allevamenti non sono così evidenti, come ha già puntualizzato AgroNotizie.

Batteri resistenti
Ora si torna ad accusare gli allevamenti, in particolare quelli avicoli. Il pretesto arriva da una recente analisi di Altroconsumo dalla quale è emerso che in campioni di carni avicole sono stati rintracciati batteri resistenti agli antibiotici (cefalosporine) nella maggior parte dei casi (63%).

Forse c'era da meravigliarsi del contrario. Una dimostrazione, semmai, di quanto ampia sia la diffusione di questi batteri, diffusione che a quanto pare ha pochi legami con le pratiche veterinarie.

Meno farmaci
Da oltre dieci anni gli allevamenti di ogni specie di interesse zootecnico hanno abbandonato l'impiego di antibiotici auxinici, quelli utilizzati a dosi minimali per favorire la crescita. Dal 2011 in Italia è operativo il Piano nazionale per l'uso responsabile del farmaco veterinario.

Ci si era posti l'obiettivo di arrivare al 2018 riducendo di quasi la metà l'impiego di antibiotici negli impianti avicoli. Quel traguardo è stato raggiunto già nel 2015, con tre anni di anticipo.

Inarrestabile
Nonostante tutto questo impegno l'antibiotico resistenza non si è arrestata e anzi continua a crescere e lo dimostrano le analisi di Altroconsumo. Le cause, dunque, non vanno cercate solo negli allevamenti.

Come evidenzia una nota firmata da UnaItalia, l'associazione che riunisce gran parte delle aziende avicole italiane, il problema è globale e multifattoriale “e va affrontato con senso di responsabilità, considerando tutti gli aspetti che hanno contribuito in decenni al suo radicamento, come l’uso scorretto o l’abuso del farmaco in medicina umana, la scarsità di nuove molecole, la scarsa igiene negli ospedali, i flussi migratori.”

Problema europeo
Certo, anche gli allevamenti hanno una loro quota di responsabilità. Non a caso il Parlamento europeo già da tempo ha proposto diverse soluzioni al problema, come la destinazione di alcuni farmaci all'esclusivo impiego in campo veterinario, gli stimoli alla ricerca di nuove molecole e una semplificazione per la loro messa in commercio.

Severità italiana
A proposito di vendita del farmaco veterinario è opportuno ricordare che in Italia è possibile solo per il tramite delle farmacie e dietro prescrizione veterinaria.

Per ogni farmaco è poi previsto un
tempo di sospensione tale da impedire la presenza di residui nei prodotti di origine animale. Anche in questo campo la legislazione italiana figura fra le più restrittive e severe.

Siamo ai primi posti
E' bene che si continui così, visto che in nessuno dei campioni esaminati da Altroconsumo sono stati rintracciati residui di farmaci. Ma che il “sistema veterinario” italiano sia ben funzionante già lo si sapeva. La dimostrazione viene dai più estesi e severi controlli del Piano nazionale residui.

Nel 2015 sono stati
analizzati quasi 42mila campioni e le irregolarità per presenza di residui sono state appena 65, lo 0,16% del totale. Meglio della media europea. Le analisi di Efsa (le più recenti risalgono al 2014) dicono che i campioni irregolari sono lo 0,37%.

Curioso che fra i prodotti con la
maggior presenza di residui di antibatterici sia il miele (0,72%). Per chi volesse approfondire, suggeriamo l'articolo pubblicato da AgroNotizie alcuni mesi fa.