E' questo lo scenario che si è prospettato a Roma nel corso della tavola rotonda per la presentazione del rapporto Censis "Il valore sociale dell'alimento carne e le nuove diseguaglianze", alla quale hanno partecipato: Massimiliano Valerii, direttore generale Censis; Giorgio Calabrese, presidente Comitato nazionale sicurezza alimentare - ministero della Salute; Massimiliano Dona, segretario generale Unione nazionale consumatori; Marino Niola, antropologo Università degli studi Suor Orsola Benincasa; Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti e Luigi Scordamaglia, presidente Federalimentare.
Dal rapporto e dalla discussione, moderata da Alessandro Cecchi Paone, emergono dati preoccupanti sull'andamento dei consumi, dati che disegnano una netta tendenza verso il ritorno a un dualismo gastronomico che contrappone il cibo 'da ricchi' a quello 'da poveri', ossia quello che alcuni possono permettersi e altri no.
E' il Food social gap, ossia la diversa capacità di accesso ad alimenti fondanti la dieta mediterranea, come frutta e verdura, pasta, pesce e carne, a seconda della condizione economica familiare. In sostanza un salto indietro di oltre mezzo secolo, a un tempo in cui lo status sociale era definito anche da quello che ci si poteva permettere di comprare al mercato.
Il ritorno alle differenze di ceto e l'ampliamento della forbice tra famiglie benestanti e a basso reddito è testimoniato con chiarezza dai numeri: nel periodo 2007-2015 la spesa alimentare è diminuita in media del 12,2%, ma nelle famiglie operaie è crollata del 19,4% e in quelle con a capo un disoccupato del 28,9%.
10,6 milioni di italiani hanno diminuito il consumo di pesce, 3,6 milioni di frutta e 3,5 milioni di verdura, sostituendoli spesso con prodotti artefatti e iperelaborati a basso contenuto nutrizionale.
Sono le famiglie meno abbienti a ridurre di più gli alimenti di base. Il consumo di pesce è calato del 35,8% nelle meno abbienti e del 12,6% nelle più ricche; per la verdura, riducono il consumo il 15,9% delle famiglie a basso reddito e il 4,4% delle più abbienti, mentre per la frutta, il 16,3% delle meno abbienti e solo il 2,6% delle più ricche.
Mentre l'Italia della borghesia generava la coscienza del valore della cosiddetta dieta mediterranea, equilibrata dal punto di vista nutrizionale disponibile per tutti, nell'Italia moderna il buon cibo è destinato solo a chi può permetterselo.
Si rinuncia soprattutto alla carne, una volta simbolo del raggiunto benessere. Sono 16,6 milioni gli italiani che nell'ultimo anno ne hanno ridotto il consumo, pari al 45,8% delle famiglie a basso reddito contro il 32% di quelle benestanti.
Nel dettaglio: a fronte di un calo del 16,1% della spesa per la carne in generale nel periodo 2007-2015, il consumo di carne bovina si riduce nel 52% delle famiglie a basso reddito e nel 37,3% di quelle benestanti. Nello stesso periodo in Europa solo i greci (-24%) hanno tagliato di più degli italiani (-23%) il consumo pro-capite annuo di carne bovina.
Queste riduzioni intaccano consumi di carne che già collocavano l'Italia al terz'ultimo posto in Europa per consumo 'apparente' (calcolato sulla carcassa al lordo delle parti non commestibili) delle diverse tipologie di carne (pollo, suino, bovino, ovino) con 79 chilogrammi annui pro capite, distanti da danesi (109,8 kg), portoghesi (101 kg), spagnoli (99,5 kg) e anche francesi (85,8 kg) e tedeschi (86 kg).
Nel lungo periodo la carne bovina ha raggiunto un consumo 'apparente' massimo di 27,6 chilogrammi pro-capite annui nel 1991, per poi gradualmente decrescere nei successivi venticinque anni.
Nel 2007, ultimo anno pre-crisi, il consumo annuo è stato pari a 24,9 chilogrammi pro-capite, per calare progressivamente fino ai 19,2 chilogrammi pro-capite del 2015. Va osservato che era dal 1965 che non si scendeva sotto la soglia dei 20 chilogrammi pro-capite annui.
Se l'accesso alla carne tornerà a essere il segno distintivo di uno status sociale medio alto, la tanto decantata dieta mediterranea rischierà di sparire dal quotidiano delle nostre tavole.
I primi risultati di tale scomparsa si avrebbero nel campo della salute, se è vero che tassi di obesità sono più alti nelle regioni con redditi inferiori e con una spesa alimentare in picchiata.
Nel Sud, dove il reddito è inferiore del 24,2% rispetto al valore medio nazionale e la spesa alimentare è diminuita del 16,6% nel periodo 2007-2015, gli obesi e le persone in sovrappeso sono il 49,3% della popolazione, molto più che al Nord (42,1%) e al Centro (45%), dove i redditi medi sono più alti e la spesa alimentare ha registrato nella crisi una riduzione minore.
Il Food social gap misurato dal Censis indica come a comandare sia oggi la diversa capacità economica degli italiani di acquistare i prodotti alimentari nelle quantità adeguate a costruire una dieta salutare.
A peggiorare la situazione già grave si aggiunge il dibattito ideologico sul valore nutritivo degli alimenti, e una comunicazione istituzionale spesso insufficiente e inadeguata, che esce regolarmente soffocata dalle chiassose posizioni amplificate dai social network.