Allevamenti in affanno
Superano il 21% le perdite che il settore delle carni e del latte ha subìto in conseguenza della pandemia.Il dato, riferito da “Il Gazzettino” dell’8 febbraio, si limita al perimetro del Veneto, ma situazioni analoghe si riscontrano in tutta la Penisola.
Alla base di questi dati le rilevazioni di Ismea e Veneto Agricoltura e riguardano i mancati guadagni, che saranno difficilmente recuperabili.
Le perdite più significative si registrano per il comparto delle carni suine e per il latte. Anche l’allevamento del coniglio, che in Veneto vanta una larga diffusione, ne esce malconcio.
Unico segmento che è riuscito ad ottenere una sostanziale stabilità dei prezzi è quello delle carni bovine. All’origine delle perdite lamentate dal settore zootecnico è la chiusura del canale Horeca, che riunisce ristorazione e ospitalità.
Ad aggravare il quadro il sensibile aumento dei costi per l’alimentazione degli animali, in particolare della soia, che rispetto a un anno fa costa il 30% in più.
L’articolo, a firma di Mauro Giacon, suggerisce in conclusione quali soluzioni adottare per fronteggiare la crisi. Fra queste gli accordi con la distribuzione organizzata e campagne di informazione per valorizzare le produzioni di qualità.
Il rally delle commodity
Il tema del costo delle materie prime per l’alimentazione animale è al centro dell’articolo pubblicato il 9 febbraio su “Il Sole 24 Ore”.Soia e mais, che sono i principali alimenti per gli animali, come ricorda Micaela Cappellini che firma l’articolo, sono per il 50% di importazione e il loro prezzo segue le logiche dei mercati internazionali delle commodity.
Se da una parte l’aumento del loro prezzo è uno stimolo allo sviluppo di queste colture in Italia, ma occorrerà tempo per vederne i risultati, dall’altra si registra il loro impatto sui costi delle aziende zootecniche.
Nel caso della soia, fondamentale per il suo apporto in proteine, è significativo il gap produttivo della Ue.
A fronte di una produzione mondiale di 360 milioni di tonnellate, l’Europa contribuisce per soli 2,7 milioni, dei quali poco meno della metà coltivati in Italia, che è il maggiore produttore europeo.
Non va meglio per il mais, che ha visto dimezzare la produzione interna negli ultimi dieci anni.
Cosa che oggi si traduce nella necessità di importare il 50% del nostro fabbisogno. Di qui la necessità, conclude l’articolo, di mettere in pista azioni di rilancio di queste colture.
Centralità dell’agricoltura
E’ l’11 febbraio, giorno nel quale ancora non si conoscono le sorti del Governo che verrà, quello presieduto fra molte attese e grandi speranze da Mario Draghi. E ci interroga su quale sarà il posto riservato all’agricoltura.E’ il quesito che si pone Annamaria Capparelli che firma l’articolo pubblicato in questo giorno sul “Quotidiano del Sud”.
Se si prevedono minori interventi in favore dell’agricoltura, si legge nell’articolo, non si aiuta il consolidamento di una politica green sulla quale punta compatta l’Europa.
Si prosegue ricordando che l’agricoltura va inserita fra le grandi questione del Paese, cosa che non si traduce nella tutela di un esercito di agricoltori o di un qualche prodotto di nicchia, ma lavorare per il bene dell’Italia, con importanti riflessi anche per l’occupazione.
Se svolta ecologica deve essere, non si può fare a meno dell’agricoltura, perché i “boschi verticali” o le “riforestazioni metropolitane” hanno bisogno di piante che non si fabbricano in laboratorio.
Se non si sostiene il florovivaismo, anche questi progetti, pur fantasiosi, naufragano nella realtà. E poi l’approvvigionamento alimentare, strategico come si è visto nell’emergenza sanitaria.
Senza capacità produttiva e un’industria di trasformazione adeguata si rischia di divenire ostaggi, come per i vaccini, delle multinazionali.
In questo periodo, dove si discute a Bruxelles delle nuove politiche agricole, di etichettature e di strategie per il futuro, il dicastero agricolo, conclude l’articolo, va messo in “serie super A”.
Aggiungo che dopo qualche giorno, a Governo formato, ecco pagine e pagine di giornali a descrivere ora questo, ora quel ministro. Ma è inutile cercare commenti sul neoministro all’Agricoltura, Stefano Patuanelli. Al massimo poche righe, tanto per ricordare l’esistenza di questo ministero. Una conferma della ben scarsa considerazione che dell’agricoltura hanno i giornali.
Un futuro nelle fibre
Notizia curiosa quella pubblicata l’11 febbraio da “Il Manifesto” con l’articolo a firma di Giorgio Vincenzi.Si racconta il progetto, sostenuto dalla Cia con il marchio “agritessuti”, che intende dare vita a una filiera tutta italiana ed ecosostenibile che utilizzi solo fibre naturali, come lino e canapa.
Anche per le colorazioni si utilizzeranno prodotti e scarti delle lavorazioni agricole, come foglie di carciofo, residui della lavorazione delle cipolle o delle potature.
Motore del progetto è l’associazione “Donne in campo”, che ricorda come la maggior parte delle fibre tessili più utilizzate sia di origine sintetica, con un forte impatto sull’ambiente per il consumo di acqua e per la produzione di CO2.
In vista delle previsioni che indicano una crescita del 60% nella domanda di indumenti di qui al 2030, gli agritessuti potrebbero svolgere un ruolo importante.
L’articolo, citando valutazioni della Cia, ricorda poi che la produzione di lino, canapa, e gelso per l’allevamento del baco da seta, impegna circa duemila aziende agricole, per un fatturato che complessivamente può raggiungere i 30 milioni di euro.
Cifra che potrebbe aumentare di molto coinvolgendo le imprese che producono piante officinali. Una filiera, conclude l’articolo, che andrebbe completata da impianti di trasformazione, in particolare nelle zone interne.
Florovivaisti in ginocchio
E’ un grido di allarme per il settore florovivaistico quello lanciato da “Il Sole 24 Ore” del 12 febbraio per denunciare la difficile situazione del settore in conseguenza della pandemia da coronavirus.Il calo del fatturato ha raggiunto punte del 40%, afferma Aldo Alberto, presidente dell’associazione florovivaisti italiani.
Solo l’export ha consentito a molte aziende di rimanere sul mercato, ma ora le difficoltà per le destinazioni verso la Gran Bretagna rischiano di limitare questa via di uscita.
Nei distretti di produzione più importanti, come quello di Pescia e di Imperia, si registra un cauto ottimismo, grazie alla ripresa delle vendite per la cura di terrazzi e giardini, sebbene gli ordini siano in forte calo rispetto a un anno fa.
A fronte di questi danni, gli aiuti giunti al settore sono però modesti e per salvare il settore si chiedono sostegni all’export, sia finanziando la promozione, sia lavorando a livello diplomatico per la rimozione dei blocchi fitosanitari che precludono in alcuni paesi l’ingresso alle produzioni italiane.
Il vino e l’ambiente
Il tema della sostenibilità è alla base della strategia Farm to Fork messa a punto dalla Commissione europea e il comparto del vino sembra ben orientato a soddisfarne gli obiettivi.Sono infatti molte le aziende impegnate su questo fronte e “Il Sole 24 Ore” ne fa un breve elenco, ricordando l’impegno di Giusti Wine, nel territorio del Montello, che ha deciso di dedicarsi allo studio delle varietà ibride per ridurre fino all’85% l’utilizzo di sostanze chimiche.
Il progetto Gleres, avviato nel 2017 da Confagricoltura Treviso e il Crea-Ve, è invece orientato alla selezione di Glera resistenti e dunque meno bisognose di interventi di difesa.
Dalla Sicilia arrivano le etichette con indicazione dell’impronta di carbonio, che si estenderanno anche altrove, mentre dal trentino partono iniziative di studio per impianti di irrigazione capaci di ridurre il consumo idrico.
L’elenco continua con altri esempi, tutti nel comparto del vino, ricordando la possibilità di accedere ai sostegni europei: 20 miliardi di euro per la biodiversity strategy e dieci miliardi di euro per la strategia Farm to Fork nell’ambito di Horizon Europe.
Agricoltura? Sempre colpevole
Il “Corriere della Sera” del 14 febbraio si sofferma sui risultati del rapporto europeo per la sicurezza alimentare, dove sono ricordati gli esiti dei controlli sulla presenza di residui di agrofarmaci nelle produzioni vegetali.Mentre in Europa il limite di legge è superato nel 4,5 % dei casi, in Italia il numero dei casi scende ad appena l’1,2%. Un risultato più che buono, ma Valeria Balboni, che firma l’articolo, ci tiene a sottolineare che in 47 campioni su 100 si trovano comunque tracce di residui, sebbene al di sotto dei limiti di legge.
Si rincara la dose ricordando che il rapporto annuale dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) segnala residui di pesticidi nel 67 per cento dei campioni da acque superficiali e in un terzo di quelli di acque sotterranee.
La soluzione, conclude l’articolo, risiede nella diffusione dell’agricoltura biologica, insieme a tutte le pratiche di agro-ecologia che permettono di utilizzare il suolo e le acque in modo sostenibile.
Insomma l'ennesimo articolo che invece di premiare i risultati raggiunti dalla nostra agricoltura preferisce colpevolizzarla. Pazienza.
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