Lo scorso 28 agosto abbiamo dato la notizia, riprendendo un comunicato stampa della Coldiretti, della spremitura delle prime olive provenienti da piante malate di Xylella che erano state innestate con varietà resistenti quali Leccino e Favolosa. Si è trattato di un primo risultato importante ma per comprendere quali sono le reali portate di questo esperimento abbiamo chiesto il parere di Pierfederico La Notte, ricercatore del Cnr-Ipsp (Istituto per la protezione sostenibile delle piante).

La Notte, ci può spiegare quale esperimento è stato fatto sulle piante di olivo?
"Tre anni fa alcuni olivi contagiati dal batterio sono stati capitozzati e innestati con le due varietà resistenti oggi conosciute, Leccino e Favolosa. Nel corso di questi anni si è sviluppata la nuova chioma e quest'anno c'è stata la prima produzione di olive".

Che cosa dimostra l'esperimento?
"Abbiamo una ulteriore prova che piante malate, se innestate con varietà resistenti, possono tornare produttive. Nel caso specifico tuttavia si trattava di piante relativamente giovani e ad uno stadio precoce di avanzamento della malattia. Non c'è ancora evidenza scientifica che l'innesto sia efficace su piante ormai compromesse dallo sviluppo del batterio e della malattia".

Leccino e Favolosa sono davvero cultivar resistenti al batterio?
"Tutti gli studi fatti ci portano a pensare che vi sia una resistenza multipla a livello genetico che rende queste piante resistenti al batterio della Xylella. Questo non significa che gli ulivi non vengano contagiati, ma che lo sviluppo del patogeno viene contrastato in maniera efficace dalla pianta e che quindi non risulta comprometterne le normali funzionalità vitali".

Nelle piante che sono state innestate dunque il batterio è ancora presente?
"Assolutamente sì. Le piante rimangono infette ma l'innesto con la varietà resistente limita la moltiplicazione del batterio, impedisce alla malattia di progredire e di uccidere l'intero ulivo. Non si tratta dunque di una cura ma di un modo con cui l'olivicoltura può convivere con la Xylella. Le prime indicazioni sperimentali ci suggeriscono però di intervenire su piante non ancora malate, oppure in uno stadio molto precoce di infezione".

Qual è l'impatto di questa sperimentazione sull'olivicoltura salentina?
"Prima di tutto dà l'opportunità a chi oggi ha piante monumentali suscettibili al batterio di innestarle preventivamente con varietà resistenti e quindi di continuare la produzione anche in caso di contagio. Inoltre il fatto di avere individuato dei geni di resistenza ci aiuterà a selezionare nuove cultivar, provenienti da altre regioni o paesi oppure frutto di incrocio, che potranno essere utilizzate dagli agricoltori pugliesi per i nuovi impianti".

Selezionare nuove cultivar richiederà però molti anni…
"Già oggi ci sono due cultivar resistenti e gli incroci sono già partiti da alcuni anni per ottenere nuove varietà. Tuttavia stiamo anche analizzando il germoplasma selvatico salentino".

Ci può spiegare meglio?
"Nel basso Salento, tra oltre 15mila piante di olivo selvatiche, ne abbiamo individuate e selezionate una trentina che sembrano essere resistenti al batterio. I semenzali nati sul territorio non sono altro che frutto di incroci spontanei tra le varietà tipiche della Puglia e tra questi alberi cresciuti a bordo strada o sui muretti a secco si potrebbero nascondere delle piante resistenti alla Xylella. Questo ci permetterebbe di avere delle potenziali nuove varietà, figlie delle cultivar oggi maggiormente coltivate in Salento, e che sono già produttive. Sfruttandole risparmieremmo sia quei sei-dieci anni di tempo che sarebbero necessari alle nuove piante prodotte oggi per andare a frutto, sia il tempo della selezione per la resistenza al batterio".