Il futuro della zootecnia? Dipende. I segnali che arrivano dalla 95esima Fazi di Montichiari, appena conclusa, sono positivi. Gli allevatori sono fiduciosi, hanno voglia di investire e sono consapevoli che il domani dipenderà da alcuni fattori: da quanto riusciranno ad essere sostenibili, dalla capacità dei prodotti di assicurare valore aggiunto e conquistare nuovi spazi di mercato e dal sostegno pubblico, inteso non tanto come accesso ai finanziamenti pubblici, che sono sempre utili, ma da quanto le istituzioni - regionali, nazionali, ma soprattutto europee - sapranno essere vicine agli allevatori.

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Si percepisce insofferenza verso l'Europa del no, no alla promozione alla carne e al vino (pericoli forse sventati), rigidità sulla Direttiva Nitrati, seppure basata su calcoli risalenti a oltre tre decenni fa, freni burocratici a completare un percorso di zootecnia circolare che deve inevitabilmente tradursi in una maggiore redditività per le imprese agricole e in un ritorno tangibile anche verso le comunità rurali e i cittadini.

 

La Fazi di Montichiari sembra indicare la rotta. Gli allevatori, come detto, desiderano investire nella sostenibilità. Ridurre i costi di produzione, rispondere con la tecnologia (dove possibile) alla carenza di manodopera - per questo si stanno diffondendo i robot di mungitura - migliorare il benessere animale, essere più green e fare allo stesso tempo reddito con le energie rinnovabili. Ma c'è di più.

 

È apparsa nitida la volontà di fare rete, di condividere il processo di innovazione per rispondere ad alcuni problemi che non sono più rinviabili. I cambiamenti climatici, così drammatici nella loro violenza, impongono nuovi approcci da parte non solo delle assicurazioni, ma anche delle stesse imprese agricole e delle filiere che devono avere disponibilità di prodotto sano da trasformare e collocare sui mercati.

 

Condividere i dati delle centraline meteo, delle rilevazioni dei terreni, degli scenari meteo permette, molto banalmente, di poter analizzare una quantità superiore di big data, con l'opportunità di costruire un quadro più ampio e di individuare le soluzioni più idonee per ridurre gli input, intervenire con maggiore tempestività, analizzare la qualità stessa dei prodotti agricoli che, magari, vengono poi impiegati negli allevamenti del territorio.

 

Non preoccupano i prezzi dei mercati. Ci si è abituati alla volatilità e, con ogni probabilità, si dovrà tenere conto di oscillazioni anche violente dei listini mondiali. Bisogna adeguarsi, creare strumenti di difesa del reddito delle imprese agricole, anche in questo ambito.

 

La riforma delle Indicazioni Geografiche, in un Paese come l'Italia, che ha una struttura in grado di garantire un fatturato nella Dop Economy vicino ai 20 miliardi, non può che rappresentare un'occasione da sfruttare rapidamente e, anche in questo caso, sfruttando l'alleanza di diversi soggetti per promuovere il made in Italy nel mondo in maniera efficace e coesa.

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È innegabile che la globalizzazione, per quanto abbia subìto un rallentamento negli ultimi anni, costituisca un volano per l'economia mondiale e, nel caso dell'agroalimentare italiano, per chi produce qualità.

 

La zootecnia deve quindi ritrovare la strada della redditività e del dialogo con la società. Le aziende agricole, gli allevamenti, ma anche le cooperative e le industrie di trasformazione stanno investendo per essere più green. Serve tempo, non sono necessarie fughe in avanti, che potrebbero disequilibrare la redditività.

 

In questo la politica deve comprendere il proprio ruolo di "facilitatore", di aggregatore, di sostegno verso obiettivi che non portano benefici solo alle singole aziende, ma all'intera società. Bisogna uscire dalla logica del singolo, per spostarsi verso frontiere di dialogo, cooperazione, scambio di knowhow, di mutualità.

 

Alla politica si chiede di fare presto e di muoversi in maniera organica, senza penalizzare l'agricoltura con fughe in avanti di tipo demagogico, e senza trascurare quello che oggi appare un motivo di inquietudine per la zootecnia: gli aspetti sanitari. Anche in questo caso, bisogna agire. Vale per la peste suina africana, vale per l'influenza aviaria, per le patologie che minacciano interi settori. Colpire un comparto non significa mettere in ginocchio solo le imprese agricole, ma anche le filiere e i loro occupati. Sono famiglie. E ricordiamo sempre che le conseguenze economiche di un disastro sanitario hanno un impatto dirompente. E né l'Italia né l'Europa hanno la forza per permettersi passi falsi.