I cambiamenti climatici ci obbligheranno ad affrontare diverse sfide, quali la gestione delle risorse idriche durante estati sempre più calde e asciutte, i flussi migratori causati da calamità naturali ed il mantenimento degli equilibri geopolitici globali per l'approvvigionamento di materie prime. Proponiamo ai nostri lettori il primo di una serie di articoli dedicata ad alcune colture xerofile, per ora sperimentali o poco note in Italia. Tali piante offrono notevoli potenzialità per convertire in una risorsa le aree aride e semiaride delle due sponde del Mediterraneo che oggi sono viste come un problema ambientale e geopolitico.

 

Prima di addentrarci nell'affascinate mondo delle colture xerofile, è doveroso dedicare questa prima puntata a definire il contesto agronomico, politico e culturale in cui esse dovrebbero inserirsi. Il primo è noto a tutti i lettori: i cambiamenti climatici e la progressiva desertificazione di molte aree del nostro Paese comportano costi di produzione sempre crescenti, i quali non sono accompagnati da un aumento adeguato della remunerazione. Le aziende agricole non possono risolvere da sole questo problema. Una soluzione sostenibile richiede comunque un intervento coordinato su larga scala. È dunque inevitabile il coinvolgimento della politica.

 

I criteri per risolvere questo problema sono due: quello "politico", focalizzato sulla popolarità nei sondaggi e i voti a breve termine, e quello "statista", mirante a risolvere strutturalmente il problema, anche a costo di misure impopolari.

 

In modo estremamente riduttivo, un "politico" opterà per una di due possibili linee di azione: quello di sinistra prediligerà le sovvenzioni statali, quello di destra propenderà per investimenti multimilionari in grandi opere pubbliche. Entrambi gli approcci sono insostenibili. Le sovvenzioni spesso peggiorano la situazione: non bastano mai e vengono puntualmente accompagnate da più vincoli burocratici. Le opere pubbliche finiscono sempre paralizzate da interminabili ricorsi e spesso rimangono inconcluse, o nel migliore dei casi si rivelano obsolete al momento dell'inaugurazione. Indipendentemente dal fatto che governi la destra o la sinistra, lo scopo di tali interventi statali rimane comunque miope. A entrambe le ideologie politiche sfugge il fatto che protrarre la coltivazione delle "colture tradizionali" su terreni ormai esausti e destinati ad essere sempre meno produttivi è insostenibile sul lungo termine. Qualsiasi delle due linee di azione innescherà un pericoloso circolo vizioso: produzioni decrescenti, che comportano la necessità di più sovvenzioni o più investimenti in infrastrutture, causano l'ulteriore esaurimento del suolo con il conseguente calo di produttività, portando alla desertificazione del territorio. La storia ci fornisce alcuni esempi di situazioni analoghe: il crollo delle antiche civiltà della Mesopotamia (1), dell'Isola di Pasqua e dei Maya.

 

L'approccio di uno "statista", invece, dovrebbe essere basato sulla logica e non sull'ideologia o l'idealismo. Bisogna ammettere che il cambiamento climatico è una realtà troppo grande e complessa per risolverla in pochi decenni, e che ciò che ormai è perso non si recupererà. L'unica cosa che possiamo fare è adattarci, e questo comporta cambiare la visione dell'agricoltura come mera attività di produzione alimentare, allargandola alla produzione di materie prime altrettanto importanti e talvolta strategiche, possibilmente in un'ottica multifunzionale. È necessario anche cambiare il concetto di produttività agricola: certamente bisogna massimizzare il reddito netto, ma nel calcolo vanno inclusi due costi finora trascurati: ambientale e sociale. Come mai è così difficile questo salto evolutivo? La risposta è da cercare nel terzo aspetto del problema evidenziato all'inizio: quello culturale.

 

L'assenza di "statisti" dalla classe dirigente - non solo quella italiana - è il risultato di un contesto culturale che privilegia la quantità di informazione messa in giro, a scapito della qualità. La mancanza di cultura scientifica, anche fra le fasce di popolazione più istruite, è il substrato che consente la proliferazione dei pregiudizi o bias cognitivi, i quali a loro volta alimentano le teorie complottiste e la diffusione di notizie false o "mezze verità" raccontate in modo manipolatorio.

 

Un articolo sui biocarburanti de Il manifesto costituisce un tipico esempio di bias cognitivi e ignoranza del politico medio, specchiata e amplificata dal giornalismo di massa. Come in altri articoli pubblicati, applicheremo il metodo cartesiano per smontare le informazioni false, esagerate o fuorvianti. Passeremo poi ad analizzare come si potrebbero inserire i biocarburanti, e più concretamente quelli da colture xerofile, in una politica di transizione ecologica equa e rispettosa delle diversità, non solo quelle etnico culturali ma anche quelle biologiche ed imprenditoriali.

 

Il primo paragrafo dell'articolo in questione contiene una mezza verità raccontata in modo da fare apparire in cattiva luce i rivali politici e insinuare ipotesi complottiste. La notizia è stata diffusa da tutti i mass media e riguarda un ipotetico piano della Germania per bandire i motori a combustione, eccetto quelli alimentati da carburanti sintetici, detti e-fuel, settore in cui la Germania è leader a l'Italia ancora agli esordi. Purtroppo, non possiamo disaminare la nuova bozza di Red III perché alla data del 27 aprile il testo dell'accordo preliminare non è stato pubblicato. Ma in base al comunicato stampa ufficiale della Ce possiamo facilmente smentire l'affermazione semplicistica di telegiornali e talk show. Il comunicato stampa della Ce dice chiaramente che gli Stati hanno due opzioni per raggiungere l'obiettivo generale di decarbonizzazione dei trasporti. Nel caso dei biocarburanti, gli unici limiti sono due: almeno il 5,5% va raggiunto con biocarburanti di seconda generazione, di cui solo l'1% saranno gli e-fuel di cui tanto si è parlato nei talk show. Quindi si deduce che il 22,5% restante verrà fornito da "biocarburanti avanzati", di cui alcuni pure da colture dedicate, ed il 70% continueranno ad essere combustibili fossili. Almeno nelle bozze, non lo sapremo finché non verrà pubblicato il testo definitivo.

 

L'articolo ripropone il solito dilemma "cibo o energia", cavallino di battaglia dei "partiti del no".

Citiamo testualmente:

"La risposta viene da uno studio (The Carbon and Food Opportunity Costs of Biofuels in the EU27 plus the UK) eseguito da un centro di ricerca tedesco, in cui si evidenzia che questi volumi di consumo sono stati accompagnati da un fabbisogno di terreno pari a 5,27 milioni di ettari (più del doppio dell'intera Sicilia), in gran parte sottratti alla produzione di cibo. Se sulla stessa superficie si coltivasse grano, per esempio, se ne produrrebbero 31 milioni di tonnellate, con un contenuto calorico sufficiente ad alimentare 120 milioni di persone".

 

Lo studio in questione è pubblicato nel sito di una nostra vecchia conoscenza: l'Ong ecologista Transport and Environment (T&E), le cui fake news e teorie complottiste abbiamo già smontato in questo e questo articolo.

 

Il "centro di ricerca tedesco" a cui si riferisce Il manifesto è l'Ifeu, Institut für Energie- und Umweltforschung Heidelberg GmbH. Da osservare che GmbH in tedesco vuol dire Srl, quindi non si tratta di un centro di ricerca universitario o statale, ma di una società commerciale che conduce ricerche per conto terzi. Con molta correttezza editoriale, l'Ifeu esplicitamente segnala a pagina 2 che si tratta di uno studio realizzato (a pagamento, perché una Srl non lavora gratis!) per conto di T&E. Benché lo studio contiene una lunga bibliografia, la sua imparzialità è dubbiosa. Il testo appare viziato dal fenomeno noto come cherry picking, cioè basato su una selezione di articoli che rispecchiano le vedute del committente, ignorando tutte le evidenze contrarie. Salta anche all'occhio meno esperto il fatto che gli autori della maggior parte degli studi citati nella biografia sono gli stessi dello studio in questione. L'idea che sia più conveniente installare pannelli fotovoltaici a terra e convertire tutta la mobilità all'elettrico è sbagliata oltre che ingenua, perché non considera tutte le esternalità negative associate al fotovoltaico e alla mobilità elettrica, né le limitazioni tecnologiche tipiche delle fonti intermittenti e degli accumulatori.

Leggi anche Quale energia per l'agricoltura sostenibile?

Lo studio sorvola anche il fatto che tutti i veicoli necessitano di ruote, che vengono prodotte con almeno il 28% di gomma naturale, causa di danni ambientali e ingiustizie sociali nei Paesi tropicali. Il 28% è gomma sintetica, proveniente da petrolio, altro 28% è nero di fumo, ottenuto dalla combustione parziale di gas o carbone, ed il resto sono sostanze varie.

 

L'articolo de Il manifesto conclude suggerendo che la Germania avrebbe fatto saltare i piani dell'attuale Governo, che puntava alla sostituzione dei combustibili fossili con biocarburanti. La conseguenza di tale ipotetica azione sarebbe il neocolonialismo travestito da aiuti umanitari, con cui gli italiani andrebbero a togliere le terre ai contadini dell'Africa per produrre i biocarburanti, forzando all'esodo le popolazioni ridotte alla fame. Tali affermazioni sembrano complottiste e vanno analizzate in dettaglio per capire se davvero le politiche sui biocarburanti siano responsabili di tali disastri umanitari e ambientali.

 

Per prima cosa, ricordiamo che l'Italia possiede il parco di auto a metano più grande d'Europa, per cui nessun Governo, quale sia il colore politico, sarebbe capace di ipotizzare la sostituzione di tutti i combustibili fossili con biocarburanti liquidi. Basterebbe piuttosto sfruttare il potenziale dei rifiuti urbani, dei fanghi fognari, dei reflui zootecnici e degli scarti agroalimentari per sostituire il gas naturale con biometano. Tale politica è già stata attuata con successo dalla Svezia, Paese che non si può certamente accusare di essere fascista o colonialista, nel quale il 96% del metano per autotrazione è biometano (Fonte: Energigas Sverige), prodotto al 99% con scarti e solo l'1% con colture dedicate, non necessariamente "sottraendo terra all'alimentazione". Piuttosto, va evidenziato il fatto che l'Italia è indietro su questo frangente, e hanno pari colpa la destra, la sinistra e anche il centro. La classe politica italiana continua a gestire i rifiuti come "problema" anziché "risorsa". La destra non ha mai fatto alcuna politica concreta per incentivare il biometano per autotrazione. La sinistra annovera fra le sue file le fazioni ecologiste dei "partiti del no" che di più hanno frenato la costruzione di impianti di digestione anaerobica negli ultimi dieci anni. Il centro è apertamente focalizzato sugli inceneritori. Tutte e tre le fazioni continuano a ingarbugliare la normativa con variazioni e interpretazioni surreali dei concetti di "sottoprodotto" e "rifiuto" con cui la legislazione comunitaria ci complica inutilmente la vita.

 

Per quanto riguarda il presunto spodestamento dei contadini africani, anche questa informazione è una "mezza verità" raccontata con il solito pregiudizio dei Paesi imperialisti che opprimono quelli del Terzo Mondo. Il fenomeno noto come land grabbing (appropriazione o accaparramento di terre) o Lsla, Large Scale Land Acquisitions - Acquisto di Terre su Larga Scala, esiste ed è certamente preoccupante (2), ma è molto più complesso della semplice contrapposizione di imperialisti e colonizzati.

 

Diversi osservatori internazionali - università, singoli Stati, Ue, Ong - hanno creato Land Matrix, un database di pubblico accesso per monitorare la situazione globale. Secondo i dati ricavati dall'autore il 25 aprile 2023, l'Africa subisce il 12,73% di tutte le operazioni Lsla denunciate, per un totale di 12,3 M ettari acquisiti, spesso in modo poco trasparente, da grossi gruppi di capitali, talvolta statali. Di questo totale, il 76% ha scopi agricoli, ma il 17% delle transazioni agricole è destinato ai biocarburanti e il 10% a materie prime non food (ad esempio cotone, gomma, tabacco, eccetera). Quindi la superficie di terra "sottratta" a scopo di produzione di biocarburanti è solo del 12,9% del totale. Inoltre, le nazionalità dei gruppi di capitali non sono quelle "imperialiste" che tutti saremmo portati ad immaginare. Come si apprezza dalle elaborazioni dei dati effettuate dall'autore, una larga fetta di Lsla corrisponde a Governi e società di capitali (molte pubbliche) di alcuni Paesi africani. La Cina ha il 2% di Lsla "palese", ma ha partecipazioni sospette in una larga fetta del gruppo classificato "altri", che annovera Paesi latinoamericani, del Golfo e del Sud Est asiatico, assieme a cordate imprenditoriali pubbliche e private multinazionali "opache". Paesi insospettabili di colonialismo come India, Romania e Ucraina, hanno acquistato estensioni comparabili a quelle dell'Arabia Saudita, e di gran lunga maggiori di quelle delle multinazionali americane, olandesi, francesi e israeliane. L'Italia ha un peso modesto nel complesso. Non appare nessuna operazione di Lsla condotta da gruppi russi, ma non possiamo escludere la loro presenza nascosta fra le operazioni della categoria "altri".

 

Nazionalità dei gruppi di capitali, pubblici o privati, responsabili del fenomeno di accaparramento di terre in Africa a scopo di produzione di biocarburanti

Foto 1: Nazionalità dei gruppi di capitali, pubblici o privati, responsabili del fenomeno di accaparramento di terre in Africa a scopo di produzione di biocarburanti

(Fonte dei dati: Land Matrix, elaborazione e grafica dell'autore)

 

In quale modo la demonizzazione dei biocarburanti impedisce lo sviluppo delle colture xerofile? La disinformazione e le campagne ideologiche contro i biocarburanti non solo ostacolano la decarbonizzazione della nostra economia, ma impediscono alle aziende agricole la diversificazione, ancorandole ad un modello produttivo ormai superato.

 

Una transizione ecologica sostenibile ed equa richiede di cambiare mentalità, non solo politica ma anche accademica e imprenditoriale. Molte ricerche sulle colture bioenergetiche per le regioni aride e semiaride hanno posto l'accento sull'obiettivo di aumentare la produttività della biomassa al fine di migliorare i ritorni energetici ed economici. Tuttavia, un esame dei vincoli sulle specie vegetali adattate alle zone aride indica che l'approccio migliore allo sviluppo agronomico di tali specie è puntare sulla qualità, piuttosto che la quantità, dell'olio prodotto. Le specie con il maggior potenziale economico sono quelle con alto contenuto percentuale di qualche olio con caratteristiche speciali d'interesse per l'industria (3). Inevitabilmente, la coltivazione in ambienti aridi o semiaridi, preferibilmente con input agronomici nulli o limitati, comporta rese annuali moderate o basse, anche se in alcuni casi la redditività potrebbe essere medio/alta.

 

È dunque fondamentale prendere atto che le minori rese quantitative si vedono compensate:

  • dalle maggiori superfici disponibili a basso costo;
  • da un graduale effetto di rinverdimento delle aree coinvolte, per l'accumulo progressivo di acqua e materia organica nel suolo;
  • dalla minore incidenza degli input agronomici;
  • dalla possibilità di creare fonti di lavoro dignitoso per popolazioni che altrimenti sarebbero costrette all'emigrazione in mano ad organizzazioni criminali. Un esempio di tale iniziativa è il progetto di una Ong per la coltivazione di jojoba da parte di cooperative di donne: Jojoba for Namibia;
  • dalla produzione di sostanze e ingredienti fondamentali per la cosiddetta "chimica verde", forse anche più importanti dei semplici biocarburanti.

 

I criteri enunziati sopra saranno il filo conduttore dei successivi articoli di questa serie.

 

Bibliografia

(1) Shahid S.A., Zaman M., Heng L. (2018) Soil salinity: historical perspectives and a world overview of the problem. In: Guideline for salinity assessment, mitigation and adaptation using nuclear and related techniques. Springer, Cham.

(2) Rapporto dell'associazione di Ong cristiane Focsiv "I padroni della terra".

(3) McLaughlin, S.P., Kingsolver, B.E. & Hoffmann, J.J. Biocrude production in arid lands. Econ Bot 37, 150–158 (1983).