Un terreno arido che si spacca, pallide dune all'orizzonte, colture che avvizziscono sotto l'abbacinante sole di un qualche lontano Paese sahariano. E' questa la prima immagine che viene in mente alla maggior parte delle persone quando si parla di desertificazione. Un pericolo vago, lontano, improbabile e pertanto preso troppo spesso alla leggera, soprattutto dai non addetti ai lavori.

Non che il deserto stia davvero avanzando in Italia (in questo caso si parlerebbe di desertizzazione, uno spettro fortunatamente ancora molto lontano). Ma per desertificazione si intende un complesso insieme di processi di degradazione del suolo e di perdita delle sue funzionalità, e questo ci riguarda molto più da vicino.

In quanto Paese mediterraneo l'Italia, e in particolare le Regioni del Centro Sud, è infatti a forte rischio: secondo un indice elaborato dal Cra – Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura, circa il 60% del territorio nazionale è a forte o medio rischio di desertificazione, con conseguente rischio di impoverimento del suolo e rischi idrogeologici.

 

Ma siamo destinati a correre verso il baratro? "Non è detto – dice Giuseppe Scarascia, doppia laurea in Scienze agrarie e Scienze forestali, più un Ph.D. a Seattle, Usa, attualmente alla guida del Dipartimento per l'agronomia, foreste e territorio del Cra - Si può fare tanto. E l'agricoltura è fondamentale".

Coltivazioni e foreste, infatti, coprono circa il 70-80% del territorio nazionale e sono pertanto in prima linea per contrastare il fenomeno della desertificazione. Ma come?

Si parla molto di agricoltura conservativa, detta anche agricoltura blu. "Questo – dice Scarascia – è il momento di metterla in atto". Nel caso delle lavorazioni del suolo è fondamentale una gestione più attenta: per esempio inerbire, ridurre le lavorazioni o adottare tecniche alternative.

L'erosione si combatte anche con un rimedio molto semplice, sul quale già i nostri nonni, a ragione, facevano affidamento: la creazione di aree verdi permanenti (siepi, chiazze di alberi o di arbusti), soprattutto nelle zone più in pendenza e quindi più a rischio.

"In Italia – ricorda Scarascia - sono ancora troppo poco usate, nonostante nei Psr ci siano misure di incentivazione per l'agrosilvicoltura". Senza dimenticare che l'inserimento di fasce arboree o arbustive tra le coltivazioni, tra l'altro, genera a cascata una serie di benefici per l'agricoltore: oltre alla protezione del suolo grazie alle radici, arricchiscono la biodiversità dell'ecosistema locale, migliorano la fertilità del suolo e possono essere usati come fonti di biomassa.

Il coinvolgimento degli agricoltori è fondamentale: sono loro in prima fila nella gestione del suolo e sono sempre loro a subire le primissime conseguenze quando qualcosa inizia a non funzionare più.

"Si può argomentare – dice Scarascia – che è vero che gli agricoltori producono beni fondamentali e forniscono servizi ambientali, ma che sono ampiamente remunerati da Psr, incentivi comunitari e chi più ne ha più ne metta. Che, insomma, stanno solo facendo il loro lavoro. In realtà, la loro funzione è irrinunciabile. Bisogna sviluppare un sistema di monitoraggio e di controllo dei servizi forniti che premi le Regioni più virtuose e sostenga quelle più in difficoltà".

"Perché le competenze ci sono, eccome – spiega Scarascia – Satelliti, aerei, a terra. Quella che manca è la capacità di organizzarsi, di fare rete".

"Oggi – continua Scarascia – facciamo cose impensabili anche solo 20 o 30 anni fa. Le competenze si sviluppano a un ritmo fantastico. Il problema è che vengono usate in modo scarso e, soprattutto, scoordinato. Le Regioni non solo non riescono a dialogare tra di loro, ma neppure con lo Stato centrale".

In realtà la soluzione sarebbe semplice: "E' ora che ci si metta tutti intorno allo stesso tavolo: Regioni, Stato, organizzazioni agricole, enti di ricerca".

Ma la mancanza di comunicazione si fa sentire anche fuori dal mondo istituzionale. Scarascia auspica infatti un legame più stretto tra il mondo della ricerca e quello applicativo dell'agricoltura. La ricerca, con i suoi mezzi e le sue conoscenze, può monitorare e dare indicazioni; l'agricoltore dovrebbe informarsi, fare domande, avanzare richieste per indirizzarla. "Bisogna creare un legame biunivoco tra agricoltura e ricerca, un legame che funzioni in entrambi in sensi per trasferire tecniche, osservazioni, competenze" spiega Scarascia.

"I mezzi li abbiamo già – conclude Scarascia – E' ora di trovare anche la volontà".

 

Fonte: Enea

 

 

La desertificazione: i fattori di rischio

• Erosione

Secondo i dati del Cra, più della metà del territorio italiano (il 60%) presenta un'elevata sensibilità all'erosione, con perdite di oltre 50 tonnellate di terreno, soprattutto agricolo, all'anno. Tradotto, alcuni millimetri "svaniti" ogni anno. A sua volta, l'erosione scatena una serie di criticità che confluiscono ad accrescere il rischio idrogeologico: alluvioni, inondazioni di corsi d'acqua che devastano infrastrutture civili e agricole e mettono a rischio anche l'incolumità delle persone. L'origine di queste criticità è ovviamente nei territori montani e collinari, spesso sentiti come "distanti" dai campi coltivati, ma basti pensare, come ricorda Scarascia, che il 70% del territorio italiano è in pendenza.

 

• Cementificazione e conseguente impermeabilizzazione del suolo

"Purtroppo non ci sono dati ufficiali, si può solo parlare di stime - dice Scarascia - Secondo di dati di Wwf e Legambiente, sono 2 o 3 milioni gli ettari persi negli ultimi 20 anni. Vero, le stime sono probabilmente al rialzo; ma nondimeno forniscono un quadro piuttosto chiaro della situazione". Il Cra sta già compiendo una mappatura per alcune province (per esempio quella di Roma), ma i lavori procedono a rilento. Quello di cui c'è bisogno, dice Scarascia, è la creazione di un'autorità indipendente e scientificamente affidabile che operi su questo tema.

 

• Perdita di vegetazione per incendi

Ogni anno 50mila ettari di bosco vanno letteralmente in fumo. Un problema che si traduce in perdita di fertilità del suolo e mancata capacità di produrre "servizi ambientali" (immagazzinare carbonio, per esempio), oltre che aumentare il rischio erosione. Molte Regioni, soprattutto al Sud (paradossalmente, proprio le più a rischio), in tempo di crisi tagliano le risorse destinate alla previsione, alla prevenzione e alla lotta attiva agli incendi boschivi, con conseguenze che, in una delle estati più calde degli ultimi 50 anni, è facile immaginare.

Oltre all'agricoltura blu e alla creazione di fasce arboree e arbustive, gli agricoltori svolgono un ruolo di 'sentinella' e tutela del territorio fondamentale.

 

Salinizzazione

Una delle principali cause del calo della produttività agricola. "In Regioni come Puglia e Sardegna - ricorda Scarascia - molte falde sono ormai diventate salmastre".

 

• Inquinamento del suolo

In tutta Italia si contano migliaia di siti industriali e urbani che hanno riversato sostanze chimiche, metalli pesanti e composti organici inquinanti nelle terre, sottraendole alle coltivazioni. Un esempio è la valle del Sacco, nel Lazio: qui, il fiume inquinato dai versamenti di un importante distretto industriale, durante la sue esondazioni, ha contaminato migliaia di ettari che ora non possono più essere coltivati. "Le possibilità di bonifica e recupero ci sono - spiega Scarascia, citando l'ipotesi di impiegare le terre per coltivare colture da biomassa - ma per qualche ragione non si è mai arrivati alla quadratura del cerchio tra burocrazia e finanziamenti".

 

• Riscaldamento globale in atto

 

L’erosione del suolo può determinare forti rischi di interramento dei bacini idrici e conseguente riduzione della capacità di accumulo di acqua negli invasi
(da Pagliai & Bazzoffi, Cra-Abp)

 

Altro che oro e petrolio

Sempre di più terra e acqua si stanno rivelando, nello scacchiere geopolitico internazionale, i due beni fondamentali per l'umanità. Sono questi i due elementi che garantiscono la produzione di cibo e, secondariamente, di biomassa per energia. Perché, si sa, il petrolio non si mangia.

Basti pensare ai recenti fenomeni del land grabbing e alle misure assunte della Fao per gestire le risorse nel modo più equo e sostenibile per tutta l'umanità, anche futura.

L'Onu stima che nel giro di 30 o 40 anni la popolazione mondiale toccherà circa 9 miliardi di persone - in altre parole, nel 2050 ci sarà un terzo in più di bocche da sfamare rispetto a oggi. La domanda di cibo è dunque destinata ad aumentare, come diretta conseguenza della crescita della popolazione e dell'aumento dei redditi (ne è un esempio la Cina, il cui fabbisogno di beni alimentari è un trend vertiginoso che non accenna a frenare). L'agricoltura riconferma ancora una volta, nel caso ce ne fosse bisogno, il suo ruolo fondamentale: sfamare tutti e bene è il diktat del futuro.

"L'agricoltura non può non crescere – dice Scarascia – ma sfruttare il suolo senza curarlo è un suicidio. La politica italiana non se ne rende conto ma bisogna fare qualcosa per contrastare la desertificazione, e bisogna farlo subito. Oltre a coinvolgere gli agricoltori, come già detto, bisogna iniziare a monitorare la situazione e raccogliere dati. Secondariamente, ma non meno importante, aumentare e ottimizzare la gestione dell'acqua".

Secondo uno studio del Cra, infatti, il suolo ha perso, nel corso degli anni, la capacità di accumulare acqua. Le lavorazioni troppo frequenti hanno finito per "compattarlo" e ridurne la porosità. Risultato? Quando piove l'acqua non riesce a penetrare nella terra e finisce per scorrere via, con le tristemente note conseguenze legate all'erosione. Senza contare le alluvioni che spesso arrivano sulle prime pagine dei giornali, con vittime e milioni di danni. "Qui il cerchio si chiude – dice Scarascia – Come già detto, la soluzione sarebbe appunto tornare all'agricoltura conservativa".

"Un'altra cosa da fare – continua il ricercatore del Cra – è informare ed educare le persone, soprattutto le nuove generazioni che un domani non troppo lontano avranno in gestione il suolo e le sue risorse: la gente non può non sapere".

La parola chiave è contestualizzare. Quasi ogni anno, in autunno o in primavera, il nostro territorio viene devastato da alluvioni: non bisogna avere la memoria lunga per ricordare i grandi disastri di Veneto (2010) e Liguria (2011), senza contare quelli per così dire "minori". Va bene la conta dei danni e delle vittime, ma questo, dice Scarascia, "può, anzi deve, essere l'occasione per raccontare che cosa sta dietro a questi fenomeni: l'erosione, il dissesto idrogeologico, i suoli che non riescono ad assorbire l'acqua. Perché non sono tragedie inevitabili, è bene che si sappia".