Il paesaggio che ci circonda non è mai stato così mutevole come in questi ultimi decenni. Dal dopoguerra, in Italia, si è perpetrata una semplificazione delle campagne italiane, soprattutto nelle zone di pianura ma anche in alcune zone collinari, e un costante e progressivo consumo di suolo, con conseguente perdita di permeabilità. In montagna, per contro, lo spopolamento e il conseguente abbandono dei coltivi sono stati compensati dall'estensione dei boschi; tanto che la copertura forestale italiana, negli ultimi cinquant'anni anni, è di fatto raddoppiata, con notevole beneficio per l'ambiente.

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Magari non lo si è notato, avendo tutti fatto l'abitudine a queste modifiche territoriali, che si sono tradotte in interventi riconducibili all'inarrestabile operosità dell'uomo. Perché, di fatto, ci siamo adeguati, abbiamo registrato le trasformazioni e ci siamo perfino creati nuovi punti di riferimento che ci aiutano nell'orientamento quotidiano. Gli antichi Romani usavano i pilastrini localizzati all'incrocio delle centurie, le pietre miliari lungo le strade consolari o le linee dei fiumi per riconoscere i luoghi; noi ritroviamo i nostri punti di riferimento alla vista di un grande capannone sormontato da una grande insegna o di una ruota panoramica che si innalza a poca distanza dalla costa.


Ma ogni tanto, purtroppo con una sempre crescente periodicità, è la natura che ci riporta alla realtà. E che ci fa comprendere come occorra un diverso approccio allo sviluppo delle nostre città, delle zone industriali che le affiancano e delle grandi infrastrutture viarie che le connettono e le attraversano.

 

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(Fonte: Marco Valtieri - Associazione Pubblici Giardini)


È vero che le norme urbanistiche di molte regioni italiane, recepite dai comuni, hanno già indicato i dettami di uno sviluppo più sostenibile, così che i nuovi insediamenti vengono spesso circondati da filari di alberi o da fasce di vegetazione che hanno un effetto mitigatorio, sia sotto il profilo ambientale sia dal punto di vista microclimatico. Ma evidentemente questo non basta. Perché alcune amministrazioni trovano il modo di eludere le norme sovraordinate, perché l'impermeabilizzazione dei suoli ha effetti su scala territoriale vasta, perché anche nelle campagne le sistemazioni agrarie più diffuse non sono più in grado di garantire il contrasto a fenomeni meteorologici che non possiamo più definire estremi ma che abbiamo declassato a "non convenzionali".

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Siamo tutti consapevoli, e chi avesse dei dubbi può consultare il sito di Ispra, che un suolo in condizioni naturali fornisce al genere umano i servizi ecosistemici necessari al proprio sostentamento: di approvvigionamento (prodotti alimentari e biomassa, materie prime), di regolazione (mitigazione del clima, cattura e stoccaggio del carbonio, controllo dell'erosione e dei nutrienti, regolazione della qualità dell'acqua, protezione e diminuzione dei fenomeni idrologici estremi), di supporto (supporto fisico, decomposizione e mineralizzazione di materia organica, habitat delle specie, conservazione della biodiversità,) e culturali (servizi ricreativi, paesaggio, patrimonio naturale). Allo stesso tempo è anche una risorsa fragile che viene spesso considerata con scarsa consapevolezza e ridotta attenzione nella valutazione degli effetti derivanti dalla perdita delle sue funzioni.

 

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(Fonte: Marco Valtieri - Associazione Pubblici Giardini)

 

Nonostante questi innegabili presupposti, il consumo di suolo in Italia non si ferma. Anzi, nel 2022 è stato il più alto degli ultimi dieci anni, con una media di 19 ettari al giorno e una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, aggirandosi intorno ai 70 chilometri quadrati/annui.


E, considerando che siamo nel bel mezzo di una crisi climatica (anche questo è un dato ormai conclamato, a scapito dei negazionisti), è divenuto imprescindibile valutare attentamente il danno provocato dal consumo del suolo. Gli eventi calamitosi occorsi alla regione Emilia Romagna nel mese di maggio 2023 hanno certamente concause complesse e una straordinarietà che non si può associare ad un unico fattore dell'ecosisema; ma certamente invocare l'abbandono della montagna e la scarsa manutenzione dei boschi come principale causa, senza valutare quanto suolo permeabile in meno è a disposizione delle precipitazioni piovose risulta stridente e poco obiettivo.

 

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(Fonte: Marco Valtieri - Associazione Pubblici Giardini)

 

È evidente che un ettaro di terreno ha una rendita decisamente maggiore se viene edificato e se, conseguentemente, vengono pagati oneri di urbanizzazione che vanno ad alimentare le casse del bilancio comunale. Ma questa analisi, del tutto sommaria, dovrebbe considerare quante risorse vengono spese per far fronte ai danni economici e morali che si verificano dopo ogni calamità naturale (o evento non convenzionale, come detto) che si scatena sui territori italiani, anche su quelli che sembravano più robusti ed efficienti.

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E, quindi, è indispensabile un cambio di paradigma, che tenga in considerazione la rigenerazione a scapito della nuova edificazione; che restituisca all'agricoltura il ruolo che le compete nell'ambito dell'economia del BelPaese; che metta gli interessi di tutti davanti a quelli di pochi; che supporti interventi di forestazione urbana realistici e non utopistici. Si rischia di essere donchisciotteschi ma non esistono al momento altre soluzioni per contrastare i cambiamenti climatici che stanno caratterizzando questo periodo storico, in Italia più che in altri Paesi europei.

 

A cura di Marcella Ghidoni e Roberto Diolaiti, rispettivamente socia della Delegazione Regione Lombardia e presidente dell'Associazione Pubblici Giardini


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