Se non ci comprate l'olio di palma noi non compreremo più formaggi e alcolici provenienti dall'Europa. È questo in soldoni il monito che arriva dall'Indonesia, dove il governo ha suggerito ai propri importatori di formaggio di cercare nuovi fornitori visto che dazi dal 5% al 25% saranno applicati sulle produzioni provenienti dall'Unione europea. E presto potrebbero essere introdotti dazi anche sui prodotti alcolici. A rimetterci, neanche a dirlo, sono gli allevatori e produttori di formaggio europei che ogni anno esportano in Indonesia circa un miliardo di euro in merci.

Ma perché l'Indonesia ha velatamente minacciato Bruxelles? Per capirlo bisogna fare un passo indietro. L'olio di palma è un ingrediente a cui l'industria alimentare ha fatto largamente ricorso negli ultimi venti anni per un gran numero di preparazioni. È infatti un olio di buona qualità, stabile e inodore, perfetto per la preparazione di molti alimenti confezionati. L'olio si estrae dai frutti di Elaeis guineensis, la cosiddetta palma da olio, che cresce bene nei climi equatoriali. Il Sud Est asiatico è il principale produttore di olio di palma con l'Indonesia che da sola soddisfa la metà del fabbisogno globale. Un settore che per Giacarta vale circa il 3% del Prodotto interno lordo.

Negli ultimi anni, complice anche la campagna delle associazioni ambientaliste, si è assistito ad una contrazione del consumo di olio di palma. Le etichette che oggi reclamizzano il fatto di non contenere questo ingrediente si moltiplicano per andare incontro ad un consumatore che vuole evitare questo grasso vegetale, vuoi per una questione salutistica, vuoi per una attenzione all'ambiente.

Nel Borneo, l'isola più grande dell'Indonesia, il 60% delle foreste vergini sono state abbattute per fare posto alle piantagioni di palma da olio. Mentre sull'isola di Sumatra un'area paragonabile all'estensione della Grecia, circa 120mila chilometri quadrati, è stata dedicata alle piantagioni. In Malesia, il secondo produttore in volume, tra il 1972 e il 2015 la metà dei terreni in mano ai privati è stata disboscata per installare coltivazioni.

Per sottrarre terreno alla foresta i contadini sono soliti dare alle fiamme gli alberi, con incendi di vaste dimensioni che sono visibili persino dai satelliti e che hanno avvolto più volte le grandi città in una coltre di fumo. Qualcosa di simile a quanto sta accadendo in Amazzonia. Gli impatti sull'ecosistema locale sono importanti, come sulla biodiversità visto che le foreste vergini sono l'habitat di oranghi e tigri.

Questo ha portato l'Unione europea a decidere di bandire le importazioni di olio di palma per la produzione di biocarburanti entro il 2030. Il bando europeo, sommato al calo dell'utilizzo dell'olio nell'industria alimentare, ha messo in allerta i paesi produttori asiatici che hanno reagito imponendo dazi sulle esportazioni europee di prodotti lattiero-caseari. L'aspetto interessante è che era stato proprio il settore lattiero-caseario ad aver beneficiato inizialmente del movimento 'palm oil free', perché l'industria aveva ripreso ad acquistare burro. Una materia prima che nel 2017 ha visto raddoppiare il proprio prezzo nel giro di pochi mesi.

Per cercare di ridare slancio all'export molte aziende si sono rivolte alla Tavola rotonda per l'olio di palma sostenibile (Rspo) che certifica dal 2004 i produttori di olio che rispondono a specifici requisiti di rispetto ambientale e sociale. L'associazione mette insieme produttori, Ong, industrie, investitori e banche, con lo scopo di migliorare la sostenibilità del settore. Chi acquista olio di palma da aziende certificate Rspo può dunque giocare nei confronti dei consumatori la carta della sostenibilità.

Si tratta tuttavia di una soluzione solo parziale al problema, visto che ancora oggi solo il 40% dell'olio commercializzato è certificato e che il 40% di tutto l'olio di palma prodotto al mondo proviene da piccoli agricoltori che sono difficilmente sorvegliabili. Bisogna poi tenere conto che se da un lato l'Unione europea e i consumatori occidentali sono sempre più attenti ai temi ambientali, paesi come la Cina, l'India e il Pakistan importano grandi quantità di materia prima cercando sempre il prezzo più vantaggioso.