Meglio produrre poco e avere prezzi alti, o mettere in cascina raccolti abbondanti accontentandosi di un prezzo più basso?

L’indimenticabile Catalano, il saggio della trasmissione cult “Quelli della notte" (firmata Renzo Arbore), non avrebbe dubbi: meglio produrre tanto e spuntare prezzi più alti. Una filosofia che calza a pennello con il pensiero dominante dei nostri agricoltori. Ma i mercati e i capricci atmosferici, purtroppo, hanno ben poco a che vedere con le brillanti gag televisive.

Tanto vale tornare con i piedi per terra e cercare di capire la prospettiva della nostra agricoltura, ora che le tanto sospirate piogge stanno mandando in archivio una torrida estate che ha stretto la campagna, e non solo quella italiana, nella morsa della siccità.

Raccolti di mais e di soia falcidiati, listino dei prezzi impazziti, costi di produzione alle stelle, interi settori produttivi – penso soprattutto alla zootecnia, utilizzatore finale di una importante fetta di cereali e semi oleosi – messi letteralmente in ginocchio.
Di fronte a questo scenario, torna l’incubo della bolla speculativa dei prezzi che nel 2007 mandò in tilt, per eccesso di rialzo, i listini delle commodity agricole nelle principali borse mondiali, gettando benzina sul fuoco innescato da una forte contrazione produttiva proprio mentre sui mercati mondiali esplodeva la domanda dei paesi emergenti.
Il latte in polvere triplicò la sua quotazione e il grano duro non fu da meno. Ma non durò a lungo e, a partire dalla metà del 2008, l’inversione di marcia fu talmente violenta sul sistema produttivo agricolo da lasciare sul campo molte aziende e anche i trader meno accorti.

A guadagnarci furono solo gli speculatori finanziari, squali che in quelle acque agitate si muovevano a loro agio con la girandola di contratti a termine, più veloci di un prestigiatore impegnato nel gioco delle tre carte.

Sotto riflettori finì così il 'rischio volatilità' dei mercati agricoli, con le immancabili promesse da parte di governi e istituzioni internazionali di prendere provvedimenti adeguati, di dettare le regole per una nuova governance in grado di alzare il livello di efficienza dei mercati, di assicurare una maggiore trasparenza dei prezzi, migliorare l’informazione sui dati produttivi e sugli stock mondiali.
Qualche tentativo è stato fatto, come in occasione del G20 agricolo fortemente sostenuto a giugno dello scorso anno dalla Francia, ma per ora, come ha dimostrato il recente vertice convocato in Messico, quegli strumenti sono ancora fermi ai box.

Una buona occasione per lanciare un sasso in questa direzione potrebbe essere la prossima riforma della Politica agricola comune (Pac).
Le proposte presentate dalla Commissione Ue e la prima valutazione del Parlamento europeo pongono il problema della sicurezza alimentare in primo piano, ma nel dibattito comunitario e nei tanti incontri bilaterali non ci è sembrato di cogliere adeguata adesione.
Lo stesso Ciolos, a esempio, continua a sostenere fortemente il principio del greening che, con il problema della sicurezza alimentare, fa letteralmente a pugni; i singoli Paesi, da parte loro, sono concentrati a portare a casa più soldi possibili, piuttosto che fare una vera battaglia sulla sicurezza alimentare.

A nostro modesto avviso, meriterebbero più attenzione due punti:  scrollarsi i sensi di colpa dell’infausto periodo delle eccedenze comunitarie e decidere la costituzione di scorte strategiche delle principali derrate per garantire la catena dei rifornimenti alimentari; rafforzare le ventilate misure per salvaguardare il reddito delle aziende agricole, che sono pur sempre 'fabbriche a cielo aperto'.

Terzo, se ci è concesso, il nostro chiodo fisso: smantellare il disaccoppiamento e dare gli aiuti Pac solo a chi produce.
Senza nascondersi dietro la foglia di fico dei campi da golf e delle scarpate ferroviarie: l’esclusione deve valere anche per gli agricoltori veri, quando non producono.