Nel giro di 10 anni il numero delle aziende agricole attive in Italia è crollato del 32,4%, scendendo a un totale di 1,6 milioni; nel 2010 erano 2,4 milioni. In compenso, la dimensione media aziendale della Sau ha fatto un balzo del 44%, sfiorando la soglia degli 8 ettari.
Son i due dati più immediati balzati alla cronaca di questi giorni per commentare i risultati definitivi del 6° Censimento generale dell’agricoltura, diramati dall’Istat.

In qualunque altro settore produttivo questi scossoni sarebbero interpretati come una vera rivoluzione. In agricoltura, invece, queste due storiche opposte tendenze non intaccano nella sostanza il pianeta-agricoltura italiano, dove la galassia delle nano aziende è talmente popolosa che nemmeno la scomparsa di 800mila piccoli appezzamenti, che spesso solo per esigenze statistiche l’Istat continua a chiamare aziende, riescono ad allinearci ai più realistici numeri delle altre grandi agricolture europee.
Così la dimensione media. La soglia degli 8 ettari appena conquistata è ancora molto lontana dagli oltre 50 ettari della Francia e dai 24 della Spagna.
Certo, parafrasando un grande finanziere, anche gli ettari (come i voti nei consigli di amministrazione) si pesano e non si contano. E questo in parte è vero. Vuoi mettere i prati pascoli, o anche una decina di ettari di seminativi, con un paio di ettari di vigneto o frutteto made in Italy!

Ma nelle statistiche, purtroppo, come insegna l’aneddoto del grande Trilussa sui polli (un signore ne mangia due, l’altro zero, ma statisticamente ne hanno mangiato uno testa) la frammentazione produttiva dà un’immagine un po’ sfocata del settore. Una dimensione che frena lo sviluppo e drena le risorse finanziarie, trasformando anche il fiume di incentivi che ogni anno vanno all’agricoltura in un sistema a pioggia. Che non aiuta i piccoli a crescere, né i grandi a decollare.
In difesa delle nano-aziende resta la grande importanza del ruolo di presidio diffuso sul territorio, necessario per arginare un ulteriore spopolamento delle zone di montagne e delle aree rurali più svantaggiate, per tutelare il paesaggio e frenare il dissesto idrogeologico.
A favore delle aziende più strutturate c’è il ruolo, che resta primario, di garantire l’approvvigionamento della catena alimentare per il fabbisogno dei consumi interni, per il business dell’export del made in Italy, per l’impatto occupazionale che esse garantiscono. Il volto imprenditoriale dell’agricoltura.

Sono le due facce di una stessa medaglia, su cui si basa un moderno modello di sviluppo agricolo sostenibile, dove però la sostenibilità economica è il presupposto per garantire la sostenibilità ambientale.
Tocca quindi alla politica mettere in campo le strategie e gli strumenti legislativi coerenti per consentire alle “due agricolture” di svolgere al meglio ciascuno il proprio ruolo, nel segno di una strategia comune. Certo, con la nascita della Politica agricola comune (che proprio ora festeggia i suoi 50 anni), la sovranità nazionale in materia di agricoltura è stata in larghissima parte delegata all’Unione europea.

Ma resta comunque un importante margine per implementare una politica nazionale, sfruttando anche la maggiore flessibilità che le ultime riforme della stessa Pac ha concesso agli Stati membri.

Dopo decenni di supino recepimento del dirigismo comunitario, è ora di ritrovare la capacità di un progetto di ampio respiro, tenendo presente le due 'anime' dell’agricoltura italiana. Valorizzando pure la tradizione contadina, i suoi riti e i suoi mercatini; ma non per questo va trascurata, a volte anche demonizzata, quella fetta minoritaria in termini di imprese, ma trainante sotto l’aspetto produttivo.

Quali scelte fare? Non è facile a dirsi. Ma una lettura più attenta del patrimonio dei dati consegnati dal Censimento può dare molti spunti interessanti e positivi, sui quali incardinare un piano agricolo nazionale che si possa definire tale, in grado di incidere sul gap strutturale di cui soffre l'agricoltura italiana. Misure, a esempio, che incentivino l'affitto, la cui Sau (Superficie agricola utilizzata) negli ultimi dieci anno ha registrato una crescita del 50%, arrivando ormai a coprire il 30% dell'intera superficie coltivata in Italia.

Altrettanto importante il segnale che arriva dalla maggiore presenza di società, il cui peso all'interno del sistema agricolo ha ormai raggiunto 17% della Sau, pur rappresentando solo il 3,6% delle aziende in attività.

Infine, ma non per questo meno importante, l'avanzata del 'ceto medio' agricolo, visto che a fronte del crollo verticale delle piccole aziende, quelle oltre i 30 ettari sono cresciute del 5,3%, concentrando il 54% della sau nazionale.
Se combinata con una maggiore propensione ad aggregarsi in Organizzazioni di produttori o anche in mini-cooperative, questa tendenza potrebbe avere una forte accelerazione e allineare il sistema agricolo italiano a una dimensione di standard europeo.
Realizzando quelle economie di scala che possono consentire vantaggi sia sul fronte dei costi, sia sulla capacità di commercializzare e competere sui mercati. Evitando, così, quell'imbarazzante paradosso che il ministro Catania ama ripetere, proprio per spronare gli agricoltori a riorganizzarsi, di un'agricoltura italiana ricca ma con aziende povere.

E il nodo è proprio questo: quelle aziende devono diventare imprese. Senza farsi prendere dalle tentazioni demagogiche di riservare i finanziamenti Pac agli agricoltori che vivono solo di agricoltura.

Va bene eliminare gli ormai famigerati campi da golf, le scarpate ferroviarie e le grandi estensioni che delimitano le piste degli aeroporti. Ma non stacchiamo la spina a chi investe in agricoltura, organizzando i fattori di produzione come terra, lavoro e capitale, coltiva e quindi svolge attività agricola.

La rendita è tutt'altra cosa: ad esempio, è pura rendita quella del disaccoppiamento che garantisce a tutti, piccoli e grandi, un assegno comunitario anche se non coltivano un bel niente.