Quando si acquista una centralina meteo si ha accesso a tutti i dati che i sensori rilevano in campo. Ma se si vuole cambiare operatore, nella maggior parte dei casi i dati storici non sono trasferibili da un fornitore ad un altro e quindi, se si cambia azienda, si perde tutto lo storico.

 

Stesso discorso vale per le attrezzature agricole: i dati raccolti da un attrezzo o da un trattore difficilmente sono trasferibili tra due piattaforme di software. Non solo per una questione di interoperabilità tecnica, ma perché le aziende tendono a non condividere i dati generati dall'agricoltore, tenendoli per sé. Si tratta di una compartimentazione che, in generale, vale per la maggior parte degli strumenti smart che sempre più si stanno diffondendo anche in agricoltura.

 

Inutile dire che questa divisione in silos dei dati non aiuta la crescita del cosiddetto digital farming e neppure delle aziende agricole. E lo stesso problema affligge anche molti altri settori economici. Per questo motivo l'Unione Europea ha da poco varato due provvedimenti volti a facilitare la condivisione dei dati: il Data Act e il Data Space.

 

"Il Data Act si applica a tutti i dati non personali, come ad esempio quelli prodotti dalle aziende, anche agricole", ci spiega Gianluca Brunori, docente presso l'Università di Pisa che da anni lavora sul tema del digital farming.

 

"La Commissione Europea ritiene, a ragione, che la condivisione dei dati sia un fattore di sviluppo, ma che occorre stabilire delle regole precise per evitare che i dati vengano utilizzati in maniera scorretta e che vi sia una giusta ripartizione dei benefici della condivisione che, è bene ricordarlo, è sempre volontaria e soggetta all'esplicita approvazione del possessore dei dati, nel nostro caso l'agricoltore".

 

I quattro attori che producono e gestiscono i dati

Nell'economia del dato, la Commissione Europea ha individuato quattro figure: l'utente, il titolare dei dati, il soggetto terzo e l'intermediario dei dati. Il primo è la persona fisica o giuridica che acquistando o affittando uno strumento smart produce e trasmette dati. Nel nostro caso potrebbe essere un agricoltore che acquista una centralina meteo.

 

Il titolare dei dati è il soggetto che ha il diritto e l'obbligo di raccogliere i dati e di metterli a disposizione dell'utente. Nel nostro caso è la ditta che produce il sensore che, attraverso un'app o una interfaccia web, permette all'agricoltore di visualizzare i dati meteo. E qui arriva la prima novità: "L'utente infatti può richiedere al titolare dei dati di mettere a disposizione di un soggetto terzo tutte le informazioni che lo riguardano. Inoltre, viene stabilito che la gestione e l'utilizzo dei dati da parte del titolare deve avvenire sulla base di un contratto scritto stipulato con l'utente", spiega Brunori.

 

Il terzo soggetto introdotto dalla nuova normativa è dunque quell'organizzazione che, sulla base dell'autorizzazione dell'utente, ottiene l'accesso ai dati generati dall'utente stesso e gestiti dal titolare. Ad esempio, una assicurazione potrebbe chiedere l'accesso ai dati di una capannina meteo installata presso l'agricoltore che sono utili a stipulare una polizza. Oppure, un agricoltore che intende cambiare fornitore di stazioni meteo può chiedere che tutti i suoi dati siano trasferiti dal vecchio operatore al nuovo.

 

"Un ulteriore attore è l'intermediario dei dati, un soggetto che si occupa del trasferimento dei dati dal titolare ad un soggetto terzo. Ma che può anche aggregare dati in possesso di più titolari e cederli a terzi", ci spiega Gianluca Brunori. "Questa raccolta di informazioni da più fonti permette di creare dei grandi database che possono poi essere analizzati attraverso l'intelligenza artificiale per creare del valore aggiunto, non producibile gestendo i dati in silos separati".

 

Condividere i dati e ricchezza generata

Per evitare tuttavia che si formino dei monopoli, la Commissione Ue ha espressamente vietato che a fungere da intermediari siano i grandi player, come ad esempio Google o AWS. Inoltre, ha stabilito che tali soggetti debbano essere neutrali, dovendo fungere esclusivamente come delle piattaforme per aggregare e trasferire dati, senza lo sviluppo di attività commerciali connesse.

 

Da questo punto di vista la sfida è tutt'altro che banale visto che la normativa obbliga i titolari a rendere disponibili i dati in un formato leggibile, ma non stabilisce uno standard per rendere i sistemi interoperabili. Si rischia quindi di avere grandi database che, con gli attuali strumenti, difficilmente sono analizzabili, a meno di non costruire delle interfacce ad hoc (come le Api). Tuttavia, grazie all'intelligenza artificiale presto le piattaforme di analisi saranno in grado di digerire dati con standard e ontologie differenti, senza bisogno dell'intervento umano.

 

"Nell'ottica della Commissione Ue sarebbe auspicabile che gli utenti, producendo i dati, possano essere remunerati per lo sfruttamento delle informazioni che li riguardano", sottolinea Brunori. "Cosa che invece oggi non accade. Anzi, sono spesso gli utenti a pagare per utilizzare lo strumento che poi genera i dati".

 

La normativa prevede anche che gli enti pubblici, come quelli di ricerca, possano chiedere ai titolari di accedere ai dati degli agricoltori. Questi possono concedere o meno l'autorizzazione per analizzare le informazioni che li riguardano ai fini della ricerca.

 

Dal Data Act al Data Space

Il legislatore europeo è stato ancora più lungimirante. Se già la realizzazione di una Data economy sarebbe un traguardo ragguardevole, la Commissione Europea ha gettato le basi per la creazione di quello che viene definito un Data Space.

 

"Si tratta di uno spazio condiviso, più o meno esteso, in cui tutti i soggetti che appartengono ad uno stesso settore o filiera o territorio, mettono in comune i propri dati in modo che l'aggregazione generi valore per tutti i partecipanti", spiega Brunori.

 

Un esempio potrebbe essere il Data Space che riguarda una denominazione di un vino. In questo caso, a farne parte potrebbero essere i viticoltori, i fornitori di mezzi tecnici, i contoterzisti, i consulenti tecnici, le cantine, le cooperative, i consorzi, i distributori e tutti gli altri stakeholder. Ognuno contribuirebbe al database con i propri dati, magari gestiti attraverso una tecnologia sicura, come la blockchain, in modo tale che analizzandoli si possa creare un valore condiviso.

 

Ma chi dovrebbe creare effettivamente questi Data Space? "Potrebbero essere i capofiliera o i soggetti maggiormente rappresentativi", specifica Gianluca Brunori. "Tuttavia, affinché i benefici siano equamente distribuiti tra i soggetti aderenti, sarebbe bene che a creare i Data Space fosse un soggetto terzo, che metta a disposizione di tutti le sue competenze e l'infrastruttura tecnologica".

 

Già oggi, infatti, esistono dei Data Space privati, gestiti da aziende e consorzi, che magari sono i soggetti più forti all'interno di una filiera. Ma in questi casi i benefici dall'aggregazione e dall'analisi dei dati non ricadono tra tutti i partecipanti.

 

Una pastificio, ad esempio, potrebbe chiedere ai propri molini fornitori e agli agricoltori di condividere i propri dati. Ma, ad esempio, un agricoltore non potrebbe avere accesso ai dati degli altri agricoltori o dei mulini. L'unico ad avere una visuale completa è il gestore della piattaforma. Ma in questo modo non vi è una vera condivisione dei dati, come invece auspicato dal Data Act e dal Data Space.

 

"Quella varata da Bruxelles è una normativa lungimirante, che getta le basi per uno sviluppo che vedremo nei prossimi anni e che sarà particolarmente sfidante per il settore agricolo, che per diverse ragioni si è dimostrato abbastanza restìo ad abbracciare il paradigma dell'agricoltura digitale", conclude Brunori.