La moria del kiwi è una malattia che ormai interessa gli impianti di actinidia lungo tutto il Paese, con una incidenza più elevata negli areali del Nord Italia, dove le prime piante malate sono state rinvenute nel 2012. Ma la moria del kiwi non è certo un fenomeno nuovo. Già negli anni Ottanta in Nuova Zelanda si osservò una insolita moria di piante successiva al passaggio di un ciclone che allagò i terreni agricoli per diversi giorni.
E infatti l'asfissia radicale sembra essere il principale fattore scatenante, ma non l'unico. Sono infatti ancora incerte le cause di questa malattia che sembra aver colpito con particolare durezza il nostro Paese.
I sintomi sono facilmente riconoscibili: appassimento delle foglie, clorosi e caduta precoce che si verificano soprattutto durante l'estate. La pianta dissecca velocemente e muore. Ad una osservazione delle radici si nota l'assenza di capillizio radicale (le radici fini che assorbono acqua ed elementi nutritivi) e anomalie morfologiche e anatomiche a livello delle radici strutturali, con alterazione dei flussi linfatici e dei vasi, i condotti che portano acqua e sostanze nutritive dalle radici alle foglie.
Per cercare di capire meglio le cause che stanno alla base della moria abbiamo chiesto aiuto a Laura Bardi, ricercatrice del Crea che lavora presso il Centro di Ingegneria e Trasformazioni Agroalimentari di Torino.
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Il ruolo dell'acqua nella moria del kiwi
"Il kiwi è una pianta lianacea che in natura cresce nella foresta, all'ombra di altri alberi, soprattutto in prossimità di corsi idrici. Ama terreni ben areati e ha bisogno di un'abbondante disponibilità di acqua e di una elevata umidità relativa, soprattutto se la temperatura ambientale è alta", ci spiega Laura Bardi. "È però anche una pianta che teme molto i ristagni idrici e va incontro facilmente ad asfissia radicale".
Visti i sintomi della moria e partendo da questi presupposti i ricercatori hanno individuato nel ristagno di acqua al suolo la causa principale (ma non l'unica) della moria. Le radici, prive di ossigeno, vanno in sofferenza velocemente e sono suscettibili agli attacchi di funghi e batteri anaerobici opportunisti, che colonizzano i tessuti radicali.
Il processo di deperimento può avere un decorso lungo e la pianta può apparire in salute per anni, fino a collassare all'improvviso quando le condizioni ambientali la mettono sotto stress. A quel punto l'agricoltore si rende conto che l'apparato radicale è sofferente, scarsamente sviluppato e incapace di assorbire acqua e nutrienti dal suolo.
In alto sezione di radice sana, in basso invece una sezione di radice malata
(Fonte foto: Laura Bardi del Crea)
"Le radici del kiwi hanno una crescita superficiale che esplora una porzione limitata di suolo. Quando si irriga per scorrimento e si lascia ristagnare l'acqua a lungo, oppure quando intense precipitazioni allagano gli appezzamenti, le piante entrano velocemente in stress", sottolinea Laura Bardi. Se la sommersione si protrae per più giorni, le già limitate capacità di recupero delle radici non sono sufficienti e la pianta deperisce.
Per questa ragione i ricercatori hanno sperimentato approcci agronomici utili a mettere le piante nelle condizioni di non andare incontro ad ipossia radicale. Ad esempio l'impiego di baulature, l'utilizzo d'impianti d'irrigazione localizzati e il miglioramento della struttura del suolo per aumentare la presenza di aria.
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Non solo ristagni di acqua
Nonostante gli accorgimenti sopra elencati, la moria del kiwi ha colpito anche gli impianti di nuova concezione, anche se con una incidenza minore. "La moria è un fenomeno multifattoriale che vede nell'asfissia radicale certamente una delle cause principali, ma non è la sola. Gli ultimi studi che abbiamo condotto in Piemonte rivelano che anche la temperatura ambientale rappresenta un fattore di rischio", sottolinea Laura Bardi.
A causa dei cambiamenti climatici sono infatti aumentati i fenomeni intensi che durante l'estate si concretizzano in periodi di lunga assenza di piogge e alte temperature (quest'anno si sono registrati 48,8°C a Siracusa, record assoluto per l'Europa) con fenomeni piovosi estremi, le cosiddette bombe d'acqua. Condizioni che rappresentano una fonte di stress per le piante.
Sviluppandosi nei primi 50 centimetri di suolo, le radici del kiwi risentono molto delle alte temperature. In impianti non inerbiti, durante l'estate, si sono registrate temperature del terreno anche di 30°C, incompatibili con la biologia del kiwi, una pianta le cui radici vanno in sofferenza già a 20°C.
Le temperature elevate, la carenza di acqua e sbalzi di temperatura repentini provocano nelle piante gravi squilibri metabolici, fisiologici e nutrizionali che, anche se non letali, indeboliscono la pianta.
"Il kiwi è poco resiliente da questo punto di vista. Se cresce in un ambiente caldo è in grado di far fronte alle temperature elevate, sempre che abbia acqua a sufficienza. Ma non riesce invece a gestire cambiamenti repentini, come quelli che ci stiamo abituando a vedere in campo", sottolinea Laura Bardi.
Difendere il kiwi dalla moria
Non esiste ancora un protocollo di coltivazione che metta le piante al sicuro dalla moria, seguendo però questi accorgimenti è possibile ridurne l'incidenza:
- Realizzare nuovi impianti su baulature.
- Mantenere inerbito il suolo in modo da ridurne la temperatura durante l'estate.
- Utilizzare un metodo di irrigazione a scorrimento controllato, sufficiente a rinfrescare il suolo e a fornire acqua alle piante senza tuttavia creare ristagni. In alternativa impiegare sistemi d'irrigazione con sprinkler in grado di innaffiare tutto il suolo.
- Monitorare attraverso sonde nel terreno la disponibilità idrica delle piante, gestendo l'irrigazione di conseguenza.
- Favorire l'arieggiamento del suolo migliorandone la struttura e la presenza di sostanza organica, facendo però anche bene attenzione alla qualità e alla stabilità della sostanza organica.
- Favorire il radicamento delle piante, anche attraverso l'impiego di biostimolanti.
- Fornire ombra alle piante per ridurre l'irraggiamento solare.
La ricerca sulla moria del kiwi non si ferma
L'impiego di biostimolanti, a eccezione di quelli che favoriscono lo sviluppo radicale, non sembra aver apportato benefici rilevanti. "Da soli non sono in grado di prevenire la moria del kiwi, anzi, possono anche essere controproducenti. Prodotti che incentivano lo sviluppo fogliare possono far collassare quelle piante che non hanno un apparato radicale adeguato a sostenerlo. Da questo punto di vista anche i fitormoni, usati per ingrossare i frutti, sono un fattore di rischio che la maggior parte degli agricoltori sottovaluta", sottolinea Laura Bardi.
Visto che le temperature elevate sono un fattore di rischio rilevante, soprattutto se associato alla carenza di acqua e ad una umidità atmosferica bassa, sarebbe interessante indagare la possibilità di consociare la coltivazione del kiwi con quella di piante ad alto fusto, ad esempio finalizzate alla produzione di biomassa, che potrebbero fornire ombra all'actinidia.
Oppure realizzare impianti in sistemi agrovoltaici, in cui le piante sono parzialmente sovrastate da pannelli solari che oltre ad offrire ombra sono in grado di produrre energia elettrica. Si tratta non di una suggestione, ma di una opportunità da esplorare soprattutto in relazione ai fondi stanziati dal Pnrr e dagli obiettivi di approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili che l'Italia si è data.
"Le conoscenze della causa della moria del kiwi sono ancora parziali e servirebbero fondi adeguati per approfondire l'argomento", conclude Laura Bardi. "Un filone non ancora esplorato riguarda il ruolo che Pseudomonas syringae pv actinidiae, l'agente patogeno della batteriosi, potrebbe avere nella moria. Non si possono infatti escludere infezioni latenti nei vasi linfatici che siano predisponenti all'insorgere della malattia".