Ottimi comunque i numeri registrati nelle due prime giornate del digital event (la terza si terrà infatti il 12 gennaio 2021), con 948 iscritti totali e 786 partecipanti complessivi. Ben 20.478 le visualizzazioni della pagina dedicata all'evento cui sono seguiti oltre 1.100 download.
Oltre trenta relatori si sono alternati nel corso di questa prima due giorni, in attesa della terza giornata, quella in cui la tematica porta il titolo di "Primi aspetti emergenti della costruzione del nuovo Pan, all'interno di uno scenario sempre più complesso del controllo dei parassiti", con programma ancora in via di perfezionamento.
La tavola (virtuale) rotonda
Nel corso della prima delle due giornate si è tenuta una tavola rotonda, ovviamente virtuale, dal titolo "From farm to fork: la sfida dei tecnici nel perseguimento della sostenibilità basata su scienza, innovazione ed etica delle filiere". Moderata da Ivano Valmori, Ceo di Image Line, ha visto la partecipazione di Paolo Carnemolla, segretario generale di Federbio, Alberto Ancora, presidente Agrofarma, Paolo Bàrberi, agroecologo della Scuola S.Anna di Pisa, Vittoria Brambilla, dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell'Università degli Studi di Milano, Gabriele Canali, economista agrario dell'Università Cattolica Sacro Cuore di Piacenza. Un parterre in rappresentanza di ruoli e posizioni molto diversi, quindi, con visioni talvolta contrapposte. Il tutto, con le domande finali di altri due colleghi giornalisti, ovvero Gianantonio Armentano, Informatore Agrario, e Lorenzo Tosi, Terra e Vita.A seguire, l'11 dicembre, sono poi giunte le esposizioni delle aziende sponsor, con le proposte tecniche su differenti colture e avversità. Fra le diverse relazioni sono stati però intercalati anche due interventi di carattere differente, ovvero quelli di Angelo Moretto e di Donatello Sandroni. Il primo, tossicologo, ex direttore dell'Icps (Centro internazionale per gli antiparassitari e la prevenzione sanitaria) e attualmente in carica come docente all'Università di Padova, ha approfondito i risvolti dei processi normativi legati alle valutazioni del rischio tossicologico per l'uomo. Il secondo, giornalista e divulgatore, ha trattato invece il tema della sicurezza dei residui di prodotti fitosanitari negli alimenti.
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From farm to fork: opportunità e rischi
A esordire nella tavola rotonda è stato Paolo Carnemolla (scarica la presentazione), il quale si è ricollegato alla pandemia in corso di coronavirus per sottolineare la fragilità della sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, sostenendo la necessità di una transizione verso un'agricoltura maggiormente ecosostenibile.Sempre più importanti stanno divenendo gli standard di qualità e di sicurezza dei cibi, nonché gli aspetti concernenti la salute delle piante e degli animali. Il segretario di Federbio ha poi considerato gli aspetti più noti del Green deal: -50% fitofarmaci, -20% fertilizzanti, -50% antibiotici, fino al 25% delle superfici a bio, 10% di aree agricole da destinarsi a infrastrutture verdi. A ciò si aggiunge il 30% di aree protette e il 10% delle superfici agricole da convertire in aree a forte grado di biodiversità.
Prossimo passo per Carnemolla dovrebbe essere la sinergia che si dovrà generare fra Pac e Farm to fork. L'accordo sulla nuova Pac per ora non è piaciuto molto, ma vi saranno due anni di transizione con lo spostamento di ulteriori risorse. Importante sarà il potenziamento delle strutture di consulenza tecnica, se si vuole una "Rivoluzione Bio" dopo la "Rivoluzione Verde".
Il settore oggi conta 68,83 milioni di ettari al mondo, di cui 14,56 milioni di ettari nell'Unione europea e 1,96 milioni in Italia, ove operano 79.046 agricoltori bio. L'Austria è la più vicina agli obiettivi del Green deal, col 24,7% di superficie a bio, ma anche l'Italia è sulla buona strada con oltre il 15%. Sicilia, Puglia e Calabria le prime tre regioni italiane per biologico, in un mercato, quello italiano, che rappresenta il quinto paese per consumo: oltre 4,3 miliardi di euro, con un +142% tra il 2010 e il 2020.
Inoltre, sempre secondo Carnemolla, Il 67% dei prodotti Dop/Igp sarebbero Bio, il quale rappresenta anche il 38% dell'export del vino. Il Segretario quindi ha enfatizzato la necessità di maggiori tecniche di biocontrollo, atte a superare l'uso dei "pesticidi" e contrastare l'inquinamento ambientale. Federbio chiede in tal senso di facilitare le procedure necessarie all'immissione sul mercato dei prodotti per il biocontrollo senza farli sottostare alle medesime procedure previste per le sostanze chimiche, aprendo la via anche alla categoria dei corroboranti e sostanze di base.
Gianantonio Armentano, Lorenzo Tosi, Paolo Bàrberi e Ivano Valmori
Accordi e disaccordi con quanto sopra sono stati poi espressi da Alberto Ancora, presidente di Agrofarma. Circa il "F2F", Ancora ravvisa la grande trasversalità di una visione strategica che però non ha ancora un carattere normativo. Anche secondo Federchimica il Green deal rappresenta un'ottima occasione per fare sedere intorno a un tavolo tutti gli attori della filiera, al fine di pianificare al meglio come realizzare tale transizione. Sugli obiettivi si è infatti tutti d'accordo, è semmai sui "come" che bisognerebbe chiarirsi.Quando si parla di obiettivi di riduzione ed eliminazione, infatti, spesso non vi è consapevolezza delle conseguenze. Negli ultimi anni sono cambiate le pressioni dei parassiti, anche alieni, che creano danni enormi. Negli ultimi 30 anni si è scesi da mille agrofarmaci disponibili a soli 300, ed è in questo scenario che si pongono gli obiettivi del "F2F". Difficile realizzarne quindi gli obiettivi in un contesto come quello italiano, dal momento che si soffre di una crescente povertà di soluzioni a disposizione di una fitoiatria che sta già mostrando crescenti difficoltà in campo.
Serve quindi sempre più integrazione fra tecniche diverse, chimiche, digitali ma anche genetiche, al fine di fronteggiare meglio le avversità. Il 15,5% del bio italiano, di fatto, andrebbe meglio analizzato in base alle voci che lo compongono, perché ci si dovrebbe interrogare su come fare a sviluppare le superfici di colture caratterizzate da maggiori avversità. In effetti, di difficoltà nei prati-pascoli ve ne sono decisamente poche.
Le industrie, peraltro, fanno già parte del biologico, fornendo le specifiche soluzioni fitosanitarie, con un terzo delle risorse finalizzate proprio al biocontrollo. L'industria non ha infatti pregiudizi, sancendo un impegno di spendere nei prossimi anni 4 miliardi di euro in soluzioni per l'agricoltura biologica. Se tale sviluppo "avrà le gambe", le industrie saranno quindi presenti. L'industria, infatti, non è solo spettatrice ma anche attrice. Ancora ritiene peraltro che vi sia un po' di ambiguità sull'uso o meno della chimica in agricoltura biologica. Un'ambiguità su cui gli esperti di comunicazione tendono a giocare, andando più che altro alla "pancia" dei consumatori. Fare corretta informazione in tal senso dovrebbe cioè essere preciso dovere di tutti gli attori della filiera. Non vi è infatti sufficiente consapevolezza dei grandi passi avanti che ha fatto il comparto industriale, con una chimica di sintesi che ormai non è certo più "pericolosa" di quella naturale.
Senza chimica di sintesi, inoltre, non si riuscirebbe peraltro ad avere cibo abbondante, sano e accessibile. Cibo che il consumatore dà spesso per scontato. Se sapesse invece tutto il lavoro che spetta agli agricoltori, forse sarebbe aiutato nelle scelte. La comunicazione su questi temi è invece molto semplicistica ed emozionale, generando spesso equivoci. L'industria, al contrario di quanto si possa pensare, è invece favorevole all'integrazione sempre più spinta di tutte le opportunità offerte dal mercato. Quando un prodotto ha superato tutto il percorso autorizzativo europeo e italiano, va infatti ritenuto sicuro. L'importante è fare sempre riferimento a un contesto regolatorio certo e altrettanto sicuro.
L'industria produce infatti investimenti pianificati molto tempo prima che il prodotto arrivi sul mercato: se la normativa cambia direzione con alta frequenza aumenta l'aleatorietà per le aziende negli investimenti stessi. Tutte le opportunità per snellire i processi normativi vanno quindi bene, ma Federchimica non è favorevole a scorciatoie che violino il principio della tutela dell'ambiente e della salute, come si auspicherebbe invece per i prodotti di origine naturale.
Circa il Green deal Agrofarma è quindi a favore degli obiettivi generali, semmai è sui criteri che si dovrebbe discutere. Necessaria quindi un'attenta valutazione complessiva di impatto: se si riducono gli agrofarmaci senza stimare i danni per l'agricoltore non va affatto bene. Se cioè si tolgono delle soluzioni, vanno date anche le soluzioni alternative, parimenti efficaci. Non bisogna cioè limitarsi ad escludere, come troppo spesso è stato fatto sino a ora, bensì è necessario includere tutte le forze e le conoscenze disponibili per affrontare le sfide del "F2F". E l'agricoltura italiana ha già raggiunto in tal senso un livello di eccellenza.
Alberto Ancora, Vittoria Brambilla, Paolo Carnemolla e Vittorio Filì
Circa il ruolo dell'agroecologia ha fornito una panoramica Paolo Bàrberi (scarica la presentazione), agroecologo della Scuola S.Anna di Pisa, secondo il quale "F2F" e "Biodiversity", previsti dal Green deal, sarebbero opportunità da non sprecare: 17 sono infatti i diversi obiettivi, fra cui povertà zero, fame zero, salute e benessere, consumo e produzioni responsabili. L'approccio da seguire dovrebbe essere cioè il cosiddetto "One Health", ovvero un'unica salute: umana, animale ambientale.
Gli obiettivi al 2030 sono ovviamente ambiziosi, specialmente quello che vorrebbe elevare il 25% della Sau europea a bio. Vi sono però obiettivi trasversali che puntano a una più sana economica circolare che includa il benessere animale e un maggior potere dei consumatori in termini di alimentazione da seguire, foriere di consumi maggiormente sostenibili e, quindi, di una maggiore biodiversità.
Bàrberi si è poi soffermato sull'ipotizzata riduzione del 50% delle molecole di sintesi. Queste hanno già mostrato un calo significativo, -3.200 tons/anno dal 2006 al 2018. Proiettandolo al 2030 si arriva a una riduzione del 30%, non del 50%. Bisogna però guardare anche le superfici coinvolte, le quali mostrano un trend in lenta decrescita. Espresso per superficie, l'utilizzo per ettaro (kg/ha) calerebbe quindi del 21% e non del 30%.
Circa la Biodiversity, secondo Barberi si dovrebbe riportare la natura al centro delle terre agricole, con l'agricoltore visto anche come guardiano del territorio, strumento professionale al servizio di produzioni sostenibili, producendo anche servizi ecosistemici non direttamente collegati alla produzione agricola (conservazione di specie e di habitat per esempio). Tali servizi ecosistemici dovranno essere sempre più collegati alla produzione di cibo, sfruttando maggiormente la salute del suolo e il controllo biologico dei parassiti.
La biodiversità, sempre secondo Barberi, può infatti offrire molto, ma il messaggio più importante è che non c'è contrapposizione fra questi punti di vista. Appare infatti possibile difendere la biodiversità, producendo comunque cibo sufficiente. L'agroecologia può dare in tal senso molti spunti tecnici senza per questo creare contrapposizioni. Per esempio sostituendo gli agrofarmaci più tossici con altri meno tossici, favorendo magari anche il passaggio alle tecniche di minima lavorazione e di semina su sodo. L'integrated pest management dovrebbe contare sempre più sull'inserimento di habitat che possano ospitare nemici naturali dei parassiti. In tal senso il biologico propone un'alta valorizzazione proprio della biodiversità.
La riprogettazione deve però coinvolgere anche la filiera a valle, ottenendo un maggior riconoscimento del ruolo dell'agricoltore, anche in termini di remunerazione. Infine un occhio anche ai consumi e agli sprechi: secondo un rapporto Fao, lo spreco attuale di alimenti, se venisse espresso come fosse una nazione, sarebbe il terzo paese per emissioni al mondo dopo Cina e Usa, con quasi 4 Gt di CO2 equivalenti. In Europa, per esempio, si spreca circa un terzo del cibo. Ridurre gli sprechi è quindi una forma attiva di contrasto ai cambiamenti climatici. In Italia non si raccolgono oltre 14 milioni di tonnellate di cibo, rimasto in campo, e il trend degli ultimi vent'anni non pare migliorare in tal senso.
Sulla necessità di integrare differenti tecniche e tecnologie tutti concordano, ma quando si parla di Ogm l'unità d'intenti purtroppo vacilla. In tal senso la testimonianza è stata portata da Vittoria Brambilla (scarica la presentazione), del dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell'Università degli Studi di Milano. Biologa e genetista, Vittoria Brambilla ha quindi ricordato il contributo che potrebbe essere dato al Green deal da parte della genetica.
Il "F2F" è al momento una mera serie di obiettivi, ma non ha posto valutazioni di impatto, anche economico. L'Usda, negli Stati Uniti, invece lo ha fatto: se si dovesse applicare il Green deal così come è stato proposto, si assisterebbe a una riduzione delle produzioni europee dal 7 al 12%, con un aumento dei prezzi del cibo a livello mondiale compreso in una forbice molto ampia, dal 9 all'89%. Inoltre, fino a 185 milioni sarebbero le persone con un più ridotto accesso al cibo, grazie anche all'esportazione degli impatti ambientali che la riduzione delle rese europee comporterebbe.
Basti pensare che fra il 1990 e il 2014 le foreste del Vecchio Continente sono salite del 9%, con un sonoro +13 milioni di ettari. Nel frattempo, però, in altre parti del mondo sono stati deforestati 11 milioni di ettari per fornire all'Europa il cibo in più richiesto. Ridurre le produzioni europee, come accadrebbe con il Green deal, avrebbe quindi effetti negativi su altri paesi del mondo, ma non solo. Perfino l'impatto dei gas serra potrebbe essere superiore a livello globale rispetto agli scenari attuali.
La soluzione, secondo la ricercatrice lombarda, sarebbe quindi l'intensificazione sostenibile delle pratiche agricole attuali. Le innovazioni, del resto, derivano dalla scienza, quindi se vuole rendere il Green deal sostenibile, la Ue deve investire di più nella ricerca di nuove tecnologie atte a compensare gli aspetti negativi dell'intero processo. Le biotecnologie rappresenterebbero in tal senso un grosso balzo in avanti, soprattutto tramite le tecniche note come Genome editing, o Crispr-Cas9. Queste sono citate, molto in sordina dal "F2F", con Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, che però le ha definite "strategiche".
Non a caso sono fruttate il Nobel per la chimica a Emmanuelle Carpentier e Jennifer Doudna. Grazie al Crispr-Cas9 si possono infatti ottenere mutazioni mirate, atte a migliorare le caratteristiche delle piante. Conosciamo infatti le caratteristiche da modificare, processo reso oggi possibile dalle cosiddette "forbici molecolari". Grazie ad esse è stato per esempio possibile creare varietà di riso resistenti al brusone e alla ruggine batterica, ma si potrebbe fare la stessa cosa con altre colture per renderle insensibili alle malattie. In soli dieci mesi, per esempio, il pomodoro è stato reso resistente all'oidio. Nordamerica e quasi tutto il Sudamerica, e perfino il Giappone, hanno già aperto al Crispr. L'Europa è invece ancora ferma all'equivalenza delle nuove tecnologie con gli Ogm transgenici seminati da oltre 25 anni. Meglio sarebbe non vincolare le nuove tecnologie ponendole al pari di quelle precedenti nel processo normativo europeo.
Infine, Gabriele Canali (scarica la presentazione), economista agrario dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, secondo il quale le differenti opzioni sarebbero da considerare nella loro interezza. Il ruolo degli agrofarmaci nell'agroalimentare appare infatti fondamentale per la sua stessa sostenibilità. Purtroppo gli obiettivi mantengono in tal senso ancora un certo grado di ambiguità. Riduzione degli agrofarmaci o del rischio? Sui fertilizzanti: si chiede di ridurre la perdita dei nutrienti, ma poi si dice che bisogna ridurre del 25% i fertilizzanti stessi.
Da una ricerca sviluppata da VSafe, le 18 colture considerate nella simulazione rappresentano il 53,3% del valore delle coltivazioni agricole. Se eliminassimo in toto la difesa fitosanitaria vi sarebbero letterali crolli della produttività, che scenderebbe al 43% per il frumento, al 12% del pomodoro da mensa, al 13% del mais. Di grande peso anche nel riso (calerebbe al 16%) e il pomodoro (al 19%). Le mele calerebbero di 2/3.
Nessuna coltura raggiungerebbe il 50% delle rese attuali, tranne per la soia che produrrebbe comunque il 56%. Dai 15 miliardi di euro circa di valore attuale si scenderebbe quindi a soli 4,4 miliardi. La produzione industriale andrebbe anche peggio, calando da 25,6 miliardi a 5,4. Basti pensare ai formaggi Dop: se crolla il latte, a seguito del crollo dei foraggi, ci sarebbe un altrettanto conseguente crollo dei formaggi.
Le importazioni, di conseguenza, salirebbero da 6 miliardi di euro a 15,3. L'impatto complessivo per le 18 filiere ammonterebbe quindi a 51,2 miliardi di euro. Purtroppo, come spesso succede, c'è un grande contenuto di ambiguità nei documenti del Green deal. Forti quindi le difficoltà nell'identificare la vera strategia. Alcuni elementi appaiono infatti in conflitto fra loro. Ogni parte politica offre cioè spunti che possono essere poi sfruttati un po' da tutti, dichiarandosi tutti vincenti anche quando non è vero.
Non ha infatti senso che dall'obiettivo di ridurre i rischi degli agrofarmaci si finisca a un semplice calo delle tonnellate. Stessa cosa per i fertilizzanti. Se scompaiono sempre più agricoltori, come possiamo chiedere ai giovani di tornare?
Se non si realizzeranno le giuste condizioni, oggi non chiare nel Green deal, dovremo importare sempre più cibo da paesi che operano in modo arretrato rispetto a noi. Ha logica, per esempio, chiedere maggiore sostenibilità qui in Europa e poi ostacolare le biotecnologie? Al contrario, si dovrebbero dare agli agricoltori strumenti applicabili riuscendo a restare nel mercato.
Nell'ambiguità attuale, invece, vi sono grandi rischi di compiere grandi errori. La sostenibilità se valutata a pezzi, si rischia di fare a pezzi la sostenibilità stessa. Se gli agricoltori europei vengono penalizzati dalla concorrenza dei prodotti d'importazione, non tenuti ai medesimi impegni, salta il sistema. La vera sfida è quindi sugli strumenti, anche per evitare uno scellerato dumping dei gas serra da noi ai paesi extra-Ue.
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Fonte: Agronotizie