Con la Cina in difficoltà a causa del coronavirus, che ha tagliato le importazioni di Pechino dal +16,5% di dicembre al -4% di gennaio e febbraio 2020, e con la prospettiva di non riuscire a dare seguito alla "Fase Uno" dell'accordo che avrebbe dovuto garantire un'esportazione agroalimentare di 80 miliardi di dollari dagli Usa, gli Stati Uniti cercano un'intesa con l'India, altro colosso in rapida ascesa a livello di popolazione e in chiave economica, per quanto nell'ultimo anno abbia rallentato il ritmo.

Il presidente americano Donald Trump è stato in India alla fine di febbraio, mettendo in agenda un colloquio per aprire alle esportazioni lattiero casearie, un settore tra i più blindati in India. Il sub-continente indiano per lasciare entrare polveri di latte, formaggi e altri prodotti e derivati, chiede garanzie precise per ottenere in cambio altri vantaggi su scala economica, sostenendo magari settori dell'economia come il tessile, le macchine agricole e i prodotti farmaceutici come risposta ai cancelli aperti al lattiero caseario.

In effetti quello del lattiero caseario è un tasto molto delicato. L'India è il principale produttore mondiale, con una produzione che - secondo le stime Usda (il dipartimento Agricoltura degli Stati Uniti) - nel 2020 dovrebbe crescere da 191 milioni a 195 milioni di tonnellate di latte liquido (il 49% rappresentata da latte di bufala), qualora la stagione monsonica non sia caratterizzata da imprevisti.

La rincorsa indiana è partita dai primi anni Settanta, quando il governo varò l'Operazione Flood, per rispondere alla situazione deficitaria di latte. A sostenere il boom indiano è stato anche il modello produttivo, strutturato prevalentemente in cooperative, in modo da assicurare agli allevatori il miglior prezzo possibile, senza i costi dell'intermediazione.

La domanda è in crescita, trascinata dall'aumento dei redditi pro capite, da un miglioramento salariale in agricoltura, da nuovi stili di vita frutto anche della progressiva urbanizzazione. Allo stesso tempo, l'India deve fronteggiare alcune criticità che rendono la filiera lattiero casearia indiana meno competitiva rispetto ai paesi più evoluti: la produttività per capo è sensibilmente inferiore alle stalle dei paesi che presentano filiere all'avanguardia, mangimi e foraggi sono insufficienti, inefficienze della catena del freddo e difficoltà di accesso degli allevatori alle tecnologie di conservazione del latte.

L'India non è particolarmente propensa ad aprire alle importazioni lattiero casearie, per quanto, al contrario, sia diventata particolarmente appetibile per i grandi gruppi del settore. Il paese è in equilibrio rispetto a produzione e consumi e un eventuale ingresso di materia prima estera andrebbe di fatto a sbilanciare i rapporti fra domanda e offerta, con ripercussioni negative sui prezzi del latte, tutt'altro che banali nel sistema socio-economico del gigante asiatico. Per questo i principali player indiani del settore sono restii a lasciare entrare produzioni dall'estero.

Secondo Clal.it, portale di riferimento del mondo lattiero caseario, il prezzo di polvere di latte scremato (Smp) e Ghee (il burro chiarificato utilizzato nella cucina indiana) è di 49,47 dollari al quintale.
Importare materie prime dall'estero finirebbe col ridurre drasticamente la redditività degli allevamenti in India e compromettere l'ossatura della società, dal momento che il 95% dei produttori alleva tra una e cinque vacche. Il rischio di un tracollo sarebbe quanto mai pericoloso per una nazione così densamente popolata come l'India. La prudenza, in questi casi, è quanto mai auspicata.