Ha fatto bene l'Italia a siglare la Belt and Road Initiative, nome ufficiale di quella che è più comunemente chiamata Nuova Via della Seta, termine coniato nell'Ottocento per indicare le rotte di scambio che univano l'Europa al Regno di Mezzo?

Restringendo il campo all'agroalimentare, l'occasione può essere molto vantaggiosa per entrambi i paesi, a patto che ciascuno offra una collaborazione aperta e paritaria, come ha raccomandato anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Le carni suine stanno soffrendo una crisi senza precedenti. Gli allevatori parlano ad oggi di una perdita media di 65 euro a capo. Un'apertura del mercato in Cina potrebbe alleggerire le pressioni sul mercato interno, magari valorizzando tagli per noi poco prestigiosi, ma particolarmente apprezzati nell'ex Celeste Impero.

Bisogna vedere ora quali saranno le tempistiche. Già alcuni anni fa le principali regioni del Nord Italia avevano ottenuto l'accreditamento all'export, senza che tuttavia si aprisse un concreto varco commerciale. Nel frattempo, la Spagna si è attrezzata per diventare uno dei primi esportatori di carni suine in Asia, consentendo alla propria filiera suinicola di crescere per affermarsi in chiave di redditività, efficienza e competitività.
Competitività che, vale anche (e soprattutto) per l'Italia, passa anche dalla logistica e dalle infrastrutture. Fermarsi al dibattito ormai stancante sulla Tav, potrebbe diventare un esercizio retorico con effetti deleteri. È vero che la risorsa terra deve essere difesa, ma per tale principio non vorremmo ritornare alle strade carraie, mentre altri paesi diventano hub sempre più forti nelle rotte verso la Cina. Ricordiamo, infatti, che l'80% delle merci cinesi arriva in Europa attraverso i porti di Rotterdam e Amburgo.

Come ha ricordato Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano e da anni figura di collegamento per sviluppare le relazioni fra Italia e Cina, potrebbe essere interessante realizzare joint venture per la gestione congiunta dei porti di Trieste e Genova.
Nessuna svendita, dunque, né cessione di sovranità, ma co-gestione nell'ottica di restituire all'Italia quel prestigio che ha perso in Europa, anche per colpe proprie di assenteismo in quel di Bruxelles.

Anche l'intesa legata all'export di seme bovino, che vede l'Italia uno dei paesi più avanzati a livello mondiale in termini di genetica, potrebbe rilanciare un segmento produttivo che potrebbe dare risultati economici diretti e indiretti agli allevatori.

Positiva sul fronte culturale l'alleanza tra i territori delle Langhe-Roero e Monferrato e i Terrazzamenti del Riso di Honghe Hani dello Yunnan. Due prodotti simbolo non solo di un territorio, ma di tradizioni millenarie (il vino per Enotria, antico nome dell'Italia e il riso per la Cina), con lo sfondo di paesaggi da valorizzare, proteggere, far conoscere.

E speriamo che l'accordo in chiave di requisiti fitosanitari per l'export di agrumi, che potrebbe fare del bene agli agricoltori italiani nella misura in cui saranno competitivi nei confronti degli altri competitor internazionali (Spagna e Nord Africa), serva per far crollare baluardi difensivi che non hanno fatto certo bene all'Italia (ma alla Cina sì).

Etichette più trasparenti e diritti dei lavoratori e delle imprese un po' meno distanti fra Italia e Cina sarebbero la ciliegina sulla torta che darebbero all'Italia il prestigio un po' appannato a Bruxelles.