"La cooperazione agricola agroalimentare in Italia è cresciuta tantissimo. I numeri sono importanti, sia per quantità di cooperative che per fatturato. Oggi abbiamo oltre 5.200 cooperative agroalimentari che, con un fatturato complessivo di 36 miliardi di euro, rappresentano circa il 25% del fatturato agroalimentare italiano. Nell'ambito del settore del made in Italy siamo certamente ciò che meglio rappresenta un prodotto di origine puramente italiana, che non è solo qualità, ma anche sostenibilità".
Fare aggregazione è uno dei mantra della nostra agricoltura, eppure anche il mondo della cooperazione, che dell'aggregazione potrebbe essere l'icona, rimane molto frammentato. Perché?
"La difficoltà maggiore vissuta nel nostro paese è quella dell'idea che essere individualisti permette di fare scelte e portare avanti le proprie iniziative. In realtà questo ci mette in grave difficoltà quando si tratta di crescita, soprattutto nel settore agroalimentare. Oggi è dimostrato che laddove il modello di impresa sia quello cooperativo, non solo si ha certezza del reddito, ma anche quella di poter programmare un futuro.
La difficoltà di aggregazione, vissuta soprattutto nelle aree meridionali, non deve essere vista solo nell'ottica del singolo produttore: se andiamo ad analizzare il dato delle 5.200 cooperative, ci rendiamo conto che ne abbiamo poche e con altissimi fatturati al Nord, dove esiste una vera aggregazione con una sua forza, mentre al Sud troviamo moltissime cooperative, ma molto piccole. Qui c'è da fare un grandissimo lavoro: quello di aggregare non solo i produttori, ma le cooperative stesse, perché oggi è sempre più difficile posizionarsi come modello di impresa e confrontarsi con i mercati nazionali e internazionali se non si è strutturati e se non si ha l'efficienza per garantire quotidianamente una fornitura adeguata a tutti coloro che vogliano consumare un prodotto italiano".
Cos'è la cooperazione in agricoltura e quali sono i vantaggi del sistema cooperativistico?
"La cooperazione in agricoltura si divide innanzitutto per settori, dai cereali alla carne, dall'ortofrutta al vino, all'olio e via di seguito. La cosa importante di tutto questo è che rispetto a questi settori abbiamo diverse filiere, che possono essere 'compiute', come nel settore ortofrutticolo dove il 99% del prodotto finito viene gestito nell'ambito della cooperativa, o settori dove la trasformazione è esterna alla cooperativa, che funge da struttura intermedia che raccoglie i conferimenti dei soci e posiziona sul mercato il prodotto trattando con la parte industriale della filiera. In entrambi i casi le cooperative sono soggetti importanti per garantire la continuità e la provenienza del prodotto.
La convenienza per l'agricoltore è nella certezza di vendere tutto ciò che si coltiva, a differenza di chi è fuori da un sistema aggregato, che il più delle volte coltiva per un mercato che spesso non c'è. Il mondo cooperativo garantisce che tutto ciò che viene coltivato in base a un piano programmato, poi viene venduto".
Quale livello di strutturazione può raggiungere una cooperativa e quali dei problemi endemici del settore primario potrebbero essere limitati da un sistema cooperativo al massimo sviluppo?
"Se andiamo ad analizzare chi sono oggi i soci delle nostre cooperative, ci rendiamo conto del perché la struttura cooperativa può essere importante non solo per la collocazione del prodotto, ma per tutta una serie di servizi dedicati alle imprese agricole. I nostri agricoltori hanno una superficie media coltivata intorno agli otto ettari; si tratta quindi di produttori piccoli e piccolissimi, che non sempre possono avere a disposizione ciò di cui hanno bisogno facendo acquisti diretti. Oggi le nostre cooperative si sono attrezzate per servire le aziende di tutti i mezzi tecnici necessari alla produzione. All'agricoltore viene fornito tutto ciò di cui ha bisogno, ma nello stesso tempo è assistito attraverso figure professionali importanti, come agronomi, tecnologi, biologi… tutte figure necessarie in un sistema di filiera per dare più importanza e qualificazione al prodotto coltivato.
Ci sono anche tanti aspetti nuovi e innovativi che stiamo mettendo in campo, a partire dall'acquisto in comune delle attrezzature. Non tutti possono permettersi la macchina per fare grandi raccolti o grandi lavorazioni e tocca alle cooperative fornirsi di un parco macchine capace di soddisfare le esigenze del socio. In campo finanziario ci sostituiamo al sistema del credito, grazie alla possibilità di ottenere come cooperativa un credito bancario a costi più bassi di quelli che dovrebbe sostenere il singolo agricoltore dando garanzie personali. Oggi tutte le cooperative danno acconti, consentendo al socio di avere quella disponibilità finanziaria che una volta si chiamava 'credito agrario' ed era agevolato in quanto integrato negli interventi nazionali. Non finisce qui.
C'è tutto un sistema assicurativo e di garanzia anche rispetto a quello che si vende e stiamo lavorando alacremente, in quanto siamo certi che saranno importantissimi per il nostro mondo, sui cosiddetti Fondi di mutualità; soprattutto nei settori del latte e dell'ortofrutta, le nostre cooperative stanno mettendo in atto meccanismi mutualistici che intervengono in caso di bisogni particolari dei soci. Quello che stiamo mettendo in campo è un discorso del tutto nuovo e che sarà arricchito dall'agricoltura 4.0, innovazione e quanto altro, che consentirà di fare investimenti importanti, fuori dalla portata del piccolo agricoltore".
Perché comprare macchine quando ci si potrebbe rivolgere agli agromeccanici?
"Noi da sempre riteniamo che la programmazione parta dalla capacità di intervenire al momento giusto. La nostra scelta nel mondo imprenditoriale cooperativo è sempre stata quella di poter fare in autonomia quello che è necessario nella filiera. Il contoterzismo è un'attività indispensabile per il nostro mondo, ma non segue i programmi che può avere una cooperativa in tema di lavorazioni o sostenibilità. Alcune cose non possono essere ridotte al solo lavoro da fare nel minor tempo e al minor costo possibile, ma devono essere seguite da persone qualificate. Inoltre il contoterzista ha un suo programma, mentre noi dobbiamo sempre più rispondere a una velocità dettata dal mercato e non possiamo permetterci il lusso di aspettare magari una settimana per intervenire su un lavoro, o di ritardare anche di un solo giorno la raccolta se il prodotto è già pronto.
Rimane ancora un unico settore in cui ci rivolgiamo ai contoterzisti: quello bieticolo saccarifero, ma anche su questo stiamo lavorando".
Il sistema della cooperazione consente di aggregare la filiera dalla produzione alla distribuzione, tuttavia con quest'ultima stenta quando si tratta di superare i confini nazionali con un marchio della Gdo. Assenza di volontà o problemi insormontabili?
"Quando giriamo il mondo esportando i nostri prodotti, ci rendiamo conto che dobbiamo rivolgerci a una Gdo straniera. Noi siamo uno dei pochi paesi europei dove la Grande distribuzione organizzata non ha mai fatto il passo dell'internazionalizzazione, i gruppi sono pochi: Coop, Conad, Esselunga… tutti marchi che hanno investito solo ed esclusivamente in Italia. Da qualche anno, inoltre, è iniziata una nuova fase, con i gruppi stranieri che vengono in Italia per gestire i prodotti italiani verso i consumatori italiani. Questo è molto preoccupante, perché rischiamo di vedere soccombere alla competizione nel nostro paese anche quei pochi gruppi che abbiamo.
Parlando di gruppi cooperativi, come Coop e Conad, credo che la grande difficoltà sia nel concepire la cooperazione slegata dalla territorialità e questo significa per il mondo produttivo del settore agroalimentare dover lavorare con gruppi esteri se si vuole puntare all'esportazione. In effetti ci sono delle piccole sperimentazioni fatte da Conad in collaborazione con altri gruppi europei, ma questo non ci aiuta a esportare rimanendo nel nostro mondo. Lo facciamo dunque in autonomia, rivolgendoci a gruppi francesi, inglesi o tedeschi che ci permettono di arrivare con i nostri prodotti in tutto il mondo".
La cooperazione italiana collabora con le sue omologie straniere, ma tende a non stringere con queste e con l'industria alleanze finalizzate all'export. Perché?
"Il mondo agroalimentare italiano ha sempre visto come punto di forza della cooperazione la territorialità e la capacità di dare forza alla base associativa. Abbiamo creato collaborazioni con la cooperazione spagnola, francese, tedesca e olandese, ma si tratta di collaborazioni mirate a creare strategie politiche più che di mercato. Questa difficoltà a fare gruppo è fondamentalmente legata ai diversi costi produttivi nei vari paesi e prodotti qualitativamente diversi. Il prodotto italiano è d'eccellenza e riconosciuto come tale in tutto il mondo dai consumatori: non vorremmo mai venisse confuso con quello di altri paesi europei, che fanno certamente buoni prodotti, ma non al livello di quelli italiani. Il rischio è quello di essere gli apripista per altri, magari più organizzati e competitivi di noi".
Quali sono i problemi principali del mondo cooperativo agricolo? Quali soluzioni dipendono da voi e quali dalla Politica nazionale ed europea?
"Una delle difficoltà è senza altro la scarsa aggregazione. Nonostante ci sia molta cooperazione, meno del 50% del mondo della produzione è aggregato, con il paradosso che tutto il prodotto che non passa per i canali della cooperazione va a competere con essa. Su questo c'è molto da lavorare, perché il problema non è politico, ma culturale.
L'altra grande difficoltà dell'agricoltura italiana sono i costi, non paragonabili a quelli degli altri paesi, anche europei che, o per le aziende più organizzate, o perché hanno investito le risorse comunitarie in maniera diversa da noi, oggi sono più competitivi sul mercato.
Quello che possiamo fare noi è certamente guardare, capire e imparare dagli altri. Quello che può fare la politica è posizionarsi meglio in Europa. Noi subiamo molto le scelte europee perché negli anni passati abbiamo fortemente trascurato il ruolo dell'Europa, mandandovi persone che non avevano interesse a rafforzare l'Italia rispetto agli altri paesi e ci siamo accorti troppo tardi dell'importanza di questo, quando alcuni ruoli chiave erano già stati occupati da grandi personalità di altri paesi. Ora dobbiamo recuperare, e non è facile. Se la politica farà delle scelte precise, potremo però certamente assumere posizioni in grado di mediare ciò che oggi stiamo subendo".
L'agricoltura italiana ha scelto la strada della massimizzazione del valore aggiunto attraverso i mercati di nicchia. È veramente impossibile coniugare quantità, qualità e reddito?
"Noi stiamo vivendo una fase particolare, in cui il consumatore pone grande attenzione a quello che mangia.
Contemporaneamente c'è una riscoperta di valori che erano andati perduti nel tempo che ci mette di fronte a nuove opportunità, ora ancora di nicchia ma suscettibili di sviluppo.
La preoccupazione generale è che un prodotto che diviene di massa può perdere di valore: non è vero. Ci siamo concentrati sul trasmettere il messaggio della qualità dei prodotti dimenticando l'aspetto della percezione della qualità da parte del consumatore. Oggi il consumatore non vuole solo il prodotto a tavola, ma vuole che gli sia raccontato, vuole sapere cosa c'è dietro. Noi invece abbiamo dimenticato di raccontare cosa c'è dietro l'eccellenza del made in Italy e ci siamo difesi raccontando che il vero problema sono le commodity, l'invasione di prodotti stranieri che ci tolgono spazio. Non è così; c'è uno spazio che non abbiamo mai occupato e lasciato ad altri perché non ci siamo organizzati bene.
Quando si parla di tanto falso made in Italy, è vero, anzi, verissimo che sia spazio sottratto alle nostre produzioni, ma è uno spazio che siamo in grado di occupare? Se facciamo un'analisi di questo tipo, purtroppo sono ancora pochi i nostri prodotti in grado di togliere dal mercato il falso made in Italy per sostituirlo con quello vero. Su questo dobbiamo fare un grande lavoro di comunicazione, aggregazione e di incremento della capacità produttiva. La nicchia va bene finché c'è l'attenzione di pochi consumatori, ma quando la richiesta si allarga, o noi occupiamo lo spazio disponibile, oppure lo farà un altro con del falso.
Dobbiamo organizzarci velocemente, sapendo che c'è un mercato che si apre sempre di più, caratterizzato da un consumo più attento. Non preoccupiamoci di quello che fanno gli altri. Saranno comunque sempre i consumatori a decidere se acquistare commodity o un prodotto che offre contemporaneamente quantità e qualità".
La parola d'ordine dell'agricoltura italiana è "qualità". I nostri prodotti sono i più controllati al mondo. Bene così, o il troppo stroppia?
"Noi ci siamo sempre vantati del fatto di essere, anche stando ai dati che ci giungono dall'Europa, il paese dove ci sono più controlli e meno infrazioni rispetto all'applicazione delle norme, che abbiamo sempre reso più restrittive rispetto a quelle comunitarie. Questo elemento ritengo debba essere mantenuto, in quanto si traduce anche in un riconoscimento da parte del consumatore. A volte, però, siamo anche fortemente autolesionisti, quando lanciamo messaggi che fanno di un singolo caso un problema generale. Nel mantenere questa prerogativa di controllo e attenzione ai prodotti, dobbiamo pretendere accordi bilaterali di libero scambio che prevedano un severo controllo anche dagli altri paesi. Non possiamo accettare che ci siano compromessi quando si parla di qualità e, soprattutto, di salute del consumatore".
A proposito di reddito: i soci delle cooperative stanno leggermente meglio degli altri, tuttavia è universalmente riconosciuto che il reddito degli agricoltori è troppo basso. Da qui la voglia di export delle nostre aziende. Abbiamo rinunciato a rilanciare un mercato interno dominato ormai da prodotti esteri a basso costo?
"Noi puntiamo sempre di più all'export perché lì troviamo quel giusto valore aggiunto che l'agricoltore si aspetta. Quando un consumatore italiano va ad acquistare nella grande distribuzione nazionale, dà sempre per scontato che sta mangiando un prodotto italiano, puntando più al prezzo che a entrare nel merito della qualità. Un consumatore straniero che compra italiano, invece, fa una scelta precisa e non si crea il problema del prezzo. Questo ci permette di creare la giusta marginalità di reddito per i nostri produttori.
Naturalmente non possiamo e non vogliamo assolutamente abbandonare il mercato italiano, perché per noi è fondamentale per conservare quella territorialità di cui ci siamo sempre fregiati. È chiaro che con la grande distribuzione italiana ci sarebbe un grande lavoro da fare, a cominciare dal non lavorare solo sulle promozioni, ma farlo soprattutto sulle eccellenze che le nostre produzioni mettono in campo per il consumo.
Oggi stiamo vivendo una competizione tra gruppi distributivi che, per tenere il passo con le catene straniere, dimenticano che nella lotta mortificano la produzione, portandola sempre più a esportare invece di vendere in Italia".
Qual è la vostra posizione sui temi della biotecnologia?
"Siamo fortemente interessati a queste novità applicate al mondo agroalimentare. Siamo interessati perché si riscopre la possibilità di portare innovazione in un modo diverso rispetto al passato e perché il nostro mondo agroalimentare vive diverse difficoltà, a partire dal mutamento climatico, che richiede la creazione di difese per le nostre produzioni che non possono essere solo di carattere tecnico, ma anche insite nelle nostre cultivar, che possono essere rese resistenti a determinati fenomeni. Una delle prime esperienze che stiamo vivendo nell'agroalimentare è nel settore vinicolo, dove si sta cercando di realizzare piante resistenti senza distruggere il patrimonio genetico di quelle cultivar, ma arricchendolo di tratti utili. Noi immaginiamo che rispetto a questo si possa avere una sana rivisitazione delle esigenze dei prodotti e dei processi alla luce delle nuove tecnologie".
Come si declina il concetto di innovazione nel mondo della cooperazione agricola?
"Nel mondo cooperativo l'innovazione è sia di processo che di prodotto.
Di processo per poter rispondere sempre meglio alle esigenze e alle abitudini dei consumatori, dove le nuove modalità di approccio al consumo del cibo ci mettono necessariamente nelle condizioni di modificare il nostro modo di produrlo; di prodotto, perché anche qui dobbiamo rispondere sempre più a indicazioni e richieste del consumatore, il confronto con il quale è per noi fondamentale. Non possiamo immaginare di produrre qualcosa che non sia accettato da un cittadino che, rispetto al passato, ha esigenze diverse e si aspetta un prodotto diverso. La cooperazione sta svolgendo una grande attività volta all'innovazione non solo delle attrezzature, ma anche nel campo della formazione.
Per noi l'innovazione è anche la risposta alla sostenibilità, di cui oggi si parla tanto, che può declinarsi attraverso nuove attrezzature o nuovi sistemi in grado di mettere le nostre produzioni in grado di rispondere alle aspettative. Noi abbiamo gli strumenti per fare tutto ciò, potendo fare investimenti fuori dalla portata del singolo produttore e utilizzando risorse comunitarie che passano attraverso Ocm o Psr affinché questa innovazione si possa realizzare nel più breve tempo possibile".
Etichette a semaforo, vino zuccherato (ma solo con zucchero straniero) e una Pac che si preannuncia striminzita. Dove sta andando l'Europa? Abbiamo ancora voce in capitolo per guidare le politiche comunitarie o siamo destinati a subire di tutto e di più "perché l'Europa ce lo chiede"?
"L'Europa risponde da molti anni agli interessi di lobby diverse da quelle che rappresentano il nostro mondo, legate molto più alle multinazionali che al cittadino, fornendo orientamenti diversi da quelli che interessano i consumatori. Come ci si può difendere? Innanzitutto l'Italia deve riprendere in Europa una posizione in grado di valorizzare quello che rappresentiamo, ma non può farlo da sola. Bisogna organizzarsi con li altri. Oggi i paesi del Mediterraneo la pensano certamente in maniera diversa da quelli del Nord Europa. Con questi bisogna fare squadra, mettendo a punto tre o quattro iniziative politiche forti, in grado di tutelare alcuni concetti.
Sappiamo benissimo che l'etichetta a semaforo non risponde all'aspettativa del consumatore, ma lo inganna. Fin quando non riusciremo a farlo capire anche a chi legifera a livello europeo, rischiamo che si inizi la sperimentazione e che questa diventi un fatto reale.
Per quanto riguarda l'aggiunta di sostanze all'interno di prodotti, quali lo zucchero nel vino, non possiamo proporci come censori di un uso spesso consolidato nel tempo anche in virtù di condizioni produttive diverse dalle nostre, ma possiamo pretendere che il consumatore sia informato se in un determinato prodotto è stato aggiunto qualcosa. In caso contrario otterremmo il risultato di confondere il consumatore più di quanto già non lo sia e se l'Europa non prenderà una posizione a tutela del consumatore, tutte queste 'nuove formule' significheranno creargli un danno.
Per questi motivi siamo fortemente contrari a queste nuove scelte e chiediamo veementemente all'Italia di riposizionarsi nella politica europea anche in previsione della prossima Pac, perché è vero che bisogna far quadrare il bilancio, ma non si può farlo attraverso tagli all'agricoltura. Ogni volta che si taglia l'agricoltura si procura un danno all'ambiente e ai consumatori".
Sull'indicazione in etichetta dell'origine dell'ingrediente principale degli alimenti, l'Ue ha sostanzialmente cassato i decreti ministeriali italiani. E ora?
"Per il mondo della cooperazione la vera origine del prodotto italiano è il prodotto cooperativo. Noi non acquistiamo da terzi e usiamo le produzioni dei nostri soci per la trasformazione e la commercializzazione, per cui l'origine in etichetta c'è e ci sarà sempre a prescindere dalle norme.
Va notato che la norma in Europa è passata senza che l'Italia si opponesse. Il vero nocciolo del problema è che, ancora una volta, noi ci siamo posizionati con delle norme sperimentali per definire l'origine degli ingredienti in etichetta, mentre poco o nulla abbiamo fatto in Europa mentre si discuteva di una legge sulle indicazioni nelle etichette. È chiaro che ora ci troveremo a dover applicare le norme europee. Abbiamo tuttavia ancora del tempo, durante il quale dobbiamo riuscire a fare un lavoro serio per far capire che ciò che chiediamo non è a tutela dei nostri produttori, bensì dei consumatori mondiali. Se non riusciamo a fare questo, rischiamo di ritrovarci isolati, giacché se ci porremo come difensori solo delle nostre prerogative, è chiaro che avremo altri paesi che ci daranno contro nella difesa delle proprie".
Biotecnologie, chimica, meccanizzazione, web, big data… come immagina l'agricoltura e l'agricoltore tra cinquanta anni?
"Gli agricoltori saranno almeno il 50% in meno. Chi sceglie di rimanere in agricoltura sarà più strutturato, organizzato, tecnologico. Sarà una nuova generazione: la generazione dei giovani. Lo vediamo già oggi, con i giovani agricoltori che vanno in campagna con i tablet e si stanno organizzando con i droni; si innovano nel merito della gestione dell'utilizzo delle acque, degli agrofarmaci e quanto altro…
Sicuramente avremo un agricoltore diverso da quello che oggi vediamo nelle pubblicità, che va in campagna con il trattorino e il cappello di paglia, ma un imprenditore a tutti gli effetti che, in una rivisitazione del sistema tecnologico e di innovazione, sarà in grado di competere mantenendo viva la tradizione italiana".
L'agricoltura vista con gli occhi dei protagonisti del settore.
Per i 30 anni di Image Line abbiamo voluto dar voce ai principali Istituti, Confederazioni e Associazioni che, dall'agrimeccanica all'agroalimentare, passando per la zootecnia, hanno tracciato il quadro presente e futuro del settore primario