AgroNotizie ha approfondito il tema con lo stesso De Castro, che nel 2011 ha avuto il merito di essere tra coloro che hanno portato il fenomeno all’attenzione internazionale, con il saggio “Corsa alla terra: cibo e agricoltura nell’era della nuova scarsità”.
Partiamo dalla definizione: cosa significa land grabbing e in quali forme si può configurare?
“Il land grabbing è il nome nuovo di una pratica tutto sommato nota e antica. La crisi dei prezzi alimentari del 2008, con il famoso articolo del Financial Times sulla multinazionale sudcoreana Daewoo che comprava buona parte della terra agricola del Madagascar, ha posto i riflettori dei media globali sul fenomeno. Scoperta l’intensificazione delle transazioni fondiarie su scala globale e analizzati i rischi, non va dimenticato che investimenti di questo tipo ci sono sempre stati. Dal 2008 sono diventati più grandi e sono aumentati. Ma questo anche perché gli investimenti in agricoltura, soprattutto in Africa sub-sahariana, sono necessari allo sviluppo della produzione locale. Negli ultimi decenni, denuncia la Fao, il declino degli investimenti da parte degli agricoltori è stato drammatico. Allora, la definizione di land grabbing deve essere uno strumento che ci aiuta a differenziare i buoni investimenti da quelli cattivi. Anche perché rapinare terre raramente è un buon affare, anche per chi lo stipula. La Karuturi Global Ltd, multinazionale agricola indiana che – raccontavamo nel libro – aveva comprato milioni di ettari in Etiopia, sembra non se la stia passando affatto bene”.
Chi sono le vittime del land grabbing?
“Questa è una domanda che ci consente di fare un primo discrimine. Un’acquisizione fondiaria fatta senza la partecipazione delle popolazioni locali, fatta cioè senza il loro consenso è land grabbing. Il problema è anche dei Paesi target degli investimenti, dove il deficit di partecipazione – anche alla normale vita democratica - è altissimo. Mancano registri della proprietà fondiaria, che potrebbero dare sicurezze a chi coltiva e alleva da generazioni su terreni considerati senza proprietari e si trova di punto in bianco senza nulla perché il suo governo ha venduto tutto, o lo ha affittato per decenni a un prezzo irrisorio. Questo senza valutazioni di impatto sociale e ambientale… nulla. In secondo luogo, gli investimenti dovrebbero arricchire il territorio dove insistono. Il land grabbing si ha anche quando le acquisizioni fondiarie servono a produrre derrate agricole per l’export in paesi dove la gente muore di fame”.
“Corsa alla terra. Cibo e agricoltura nell’era della nuova scarsità”. Rispetto alla prima edizione del volume, cosa è cambiato del land grabbing? Qual è il trend? Chi sono gli attori? Ce ne sono di nuovi?
“Il quadro è più chiaro, ma questo non vuol dire che sia più semplice. Voglio dire, si ha più contezza di quali e quante siano le variabili in gioco. La stessa misurazione del fenomeno in ettari è stata fortunatamente problematizzata. Il portale Landmatrix fa le dovute differenze tra contratti firmati, in essere o solo annunciati. È emerso il ruolo fondamentale delle elites locali, in una sorta di land grabbing fatto in casa. Gli investitori vengono soprattutto da Usa ed Europa. La Cina investe massivamente all’estero, ma quando si tratta di terra agricola, viene dopo Regno Unito, Stati Uniti o Germania. Ma in Corsa alla terra il land grabbing è un fenomeno che viene raccontato perché ci aiuta a capire il rovesciamento dello scenario dell’approvvigionamento agricolo mondiale per come l’abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra al 2000”.
Lei ha definito il libro come una “cassetta degli attrezzi” per conoscere e affrontare il problema. Ci sarà una nuova edizione del libro?
“Non serve per affrontare il problema specifico del land grabbing, ma è una cassetta degli attrezzi per capire il nuovo scenario agroalimentare che, ripeto, risulta praticamente ribaltato rispetto a 10-15 anni fa. Con i miei collaboratori stiamo pensando a qualcosa di diverso”.
Esiste un fenomeno “buono” di land grabbing? Se sì, in che termini?
“Come le dicevo, se chiamo una cosa rapina, è difficile che possa considerarla buona. Come scrivevamo nel libro, l’adozione del termine land grabbing e la sua sovrapposizione con la narrativa neocoloniale hanno reso l’argomento molto notiziabile, hanno fatto sì che sfondasse. Ma quando la Banca Mondiale e altre istituzioni come l’Iied (International Insitute of Environment and Development, ndr) affrontano il tema utilizzano termini più cauti. Lorenzo Cotula, ricercatore dello Iied tra i primi a occuparsi della materia, quando ha pubblicato il suo libro ha utilizzato il punto interrogativo: The Great African Land Grab?, eppure nel volume non si facevano certo sconti a investitori e Stati. Si spera che linee guida volontarie adottate dalla Fao per aiutare i governi a tutelare i diritti di proprietà e di accesso alle terre, alle foreste e alle risorse ittiche delle popolazioni, siano applicate seriamente, soprattutto dai paesi target degli investimenti”.
La volatilità dei mercati deve essere considerata un effetto, una causa o non c’è correlazione col land grabbing?
“Lo scenario cui il libro si riferisce si caratterizza in due modi. In primo luogo, incremento dei prezzi agricoli sul medio termine, dai primi anni del 2000 in poi. In secondo luogo, fenomeni di volatilità estrema nel breve periodo. La volatilità dei mercati agricoli è normale, negli Usa i futures li hanno inventati proprio per farvi fronte. Ma tra il 2006-2012 la volatilità è stata molto, troppo accentuata. La corsa alla terra, sia essa land grabbing o semplice acquisizione, è un riflesso di questo scenario. Ma non dobbiamo fare riferimento a una causa unica. Corsa alla terra iniziava proprio invitando a dire basta alla caccia dei colpevoli unici. Lo scenario è complesso, le variabili molte, alcune di queste devono essere ancora studiate meglio. Anche le reazioni protezioniste di alcuni Stati all’incremento dei prezzi e alla volatilità, sia nel 2007 che nel 2010, sono state responsabili di ciò che è successo”.
Sul fronte della volatilità delle materie prime, l’attivazione di sistemi quali le assicurazioni sui prezzi o i futures possono ridurre il fenomeno entro parametri fisiologici e contenere la speculazione?
“I mercati servono e anche la speculazione, nel senso che è inseparabile da cose necessarie, come la liquidità del sistema. Per far funzionare bene i mercati servono politiche. Politiche agricole al passo coi tempi dovrebbero mettere al centro la gestione dei rischi. Ma non è così facile. Gli americani sono i primi ad aver inventato la gestione del rischio in agricoltura, ma l’ultima versione che ne hanno dato nel Farm Bill rischia di essere non sostenibile per le casse federali. Quindi si può dire che in generale politiche di gestione del rischio sono fondamentali, ma è molto difficile progettarle in modo efficace”.
“Stomaco e serbatoio”: serve una politica mondiale sui biocarburanti? La discussione sulla coesistenza/convivenza fra produzione agricola a scopi alimentari (food/feed) e a scopi energetici potrebbe avvenire all’interno del dibattito sui cambiamenti climatici?
“Sia nell’Ue che negli Usa, l’appeal dei biocarburanti di prima generazione è in esaurimento. Più in generale, il tema food versus non-food vale la pena di essere affrontato per bene. Anzi è cruciale. Ma questo vuol dire ragionare anche sulla fibra, non solo sul fuel. All'agricoltura si domanda sempre di più e sempre più cose diverse”.
Per far fronte ai bisogni crescenti di cibo, gli Ogm possono rappresentare una soluzione per produrre di più, alla luce di previsioni di una crescita di altri 3 miliardi della popolazione mondiale entro il 2050?
“Gli Ogm non sono la bacchetta magica. Sono uno degli strumenti a disposizione. Come accademico, ritengo che bisognerebbe usare quanti più strumenti possibile. Quindi anche gli Ogm. Ma da qui a dire che con gli Ogm sfami il mondo ce ne corre. Il problema, che è molto difficile da affrontare in Europa, è che quando si dice Ogm non si parla di prodotti in serie, ma di un processo o, se vuole, di una tecnica. Alcuni Ogm oggi in commercio sono assolutamente irrilevanti per le esigenze di un agricoltore povero del sud del mondo. Ma la ricerca sta avanzando, nel giro di due o tre anni potremmo avere una manioca Gm immune da alcuni virus che distruggono i raccolti di questo cibo basilare delle popolazioni africane. Ecco, questo non mi è chiaro: come l’avversione a un determinato prodotto, o a chi lo produce, possa condurre alla condanna di una tecnica e della ricerca che si può sviluppare attorno ad esso”.