In Italia l'ultimo caso di influenza aviaria, già risolto, risale a marzo e ha colpito un allevamento di tacchini nel Veneto, come conferma il Centro di referenza nazionale per questa patologia, presso lo Zooprofilattico delle Venezie.
Il virus circola però in molti altri Paesi, in particolare dell'Est europeo, oltre a Italia e Germania e in queste ultime settimane ha fatto la sua comparsa anche in Norvegia.

 

Più volte AgroNotizie® si è occupata di questa patologia che desta molte preoccupazioni per gli allevamenti di ogni specie avicola, dove può arrecare danni consistenti sia negli allevamenti colpiti, sia in quelli che rientrano nel perimetro delle aree di protezione e di sorveglianza che circondano per chilometri il focolaio attivo.

 

Pericolo lontano

L'uomo non corre seri pericoli, in quanto la malattia si diffonde raramente e solo in particolari condizioni. Anche il consumo di carni avicole non comporta alcun rischio per l'uomo.

In pratica le uniche avvertenze riguardano gli "addetti ai lavori", per la possibilità che uno stretto contatto con gli animali ammalati possa consentire il passaggio di specie, lo spillover come abbiamo imparato a conoscere con l'emergenza covid-19.

Ma a differenza di quest'ultima, non è possibile la trasmissione del virus dell'influenza aviaria da uomo a uomo.

Dunque una pandemia di influenza aviaria nell'uomo, alle condizioni attuali, non è possibile.

 

La ricerca

Ma le condizioni possono mutare ed Efsa, l'Ente Europeo per la Sicurezza Alimentare, insieme a Ecdc, European center for disease prevention and control, ha ritenuto opportuno mettere in guardia la comunità scientifica e le autorità sanitarie europee sulla possibilità di un'evoluzione pandemica di questo virus.

 

Uno scenario solo ipotetico, ma non per questo da escludere e ignorare, tenuto conto della forte capacità evolutiva dei virus influenzali, fra questi l'H5N1, virus ad alta patogenicità responsabile dell'influenza aviaria.

Prove di queste capacità il virus ne ha già date infettando animali da compagnia come i gatti o animali da pelliccia come i visoni.

 

Chi rischia di più

Evitare che il virus dell'influenza aviaria si trasformi nella minaccia di una futura pandemia per l'uomo, per quanto improbabile, richiede una serie di attenzioni.

Anzitutto è necessario sapere che il virus utilizza gli uccelli selvatici, e in particolare quelli che hanno tendenze migratorie, per spostarsi anche a grandissime distanze.

 

Facile allora intuire come ad essere più esposti al rischio di infezione siano gli allevamenti avicoli all'aperto, quelli che solo apparentemente sembrano rispondere meglio alle esigenze di benessere degli animali.

Non a caso, nelle zone ove si presentano focolai questa tipologia di allevamenti viene espressamente vietata.

 

Virus globale

Occorre poi tenere conto della diffusione globale di questo virus e la sua presenza in aree con sistemi di allevamento del pollame disomogenei.

Dall'allevamento professionale e protetto che comunemente si incontra nei Paesi a zootecnia evoluta, come quelli europei, a situazioni dove prevale l'allevamento rurale con una forte promiscuità fra animali e uomo, frequenti nei Paesi emergenti.

Condizioni queste ultime dove l'allarme infezione tarda ad essere percepito, favorendo l'ulteriore diffusione del virus.

 

Una disparità di condizioni che potrebbe favorire la capacità di questi virus di compiere passi evolutivi verso l'adattamento ad altre specie, come ad esempio i mammiferi.

Altri fattori che possono spingere il virus in questa direzione sono i diversi ambienti climatici ed ambientali nei quali il virus stesso trova diffusione.

 

One Health

Nelle precedenti pandemie influenzali che hanno colpito l'uomo questi virus avevano la capacità di trasmettersi da e tra gli esseri umani, cosa che al momento non è presente nel caso del virus nell'influenza aviaria.

L'obiettivo ora e è quello di evitare che il virus possa acquisire questa capacità.

Un risultato che impone uno sforzo comune fra medicina veterinaria e medicina dell'uomo, nel solco della strategia One Health, termine anglosassone che si potrebbe tradurre nel concetto di "salute circolare".

 

Massima allerta

Gli esiti della ricerca condotta da Efsa e Ecdc suggeriscono una sorveglianza più attenta sull'uomo e sugli animali.

Per questi ultimi sarebbe necessario tenere sotto controllo gli uccelli selvatici, gli uccelli in cattività, il pollame e anche i mammiferi domestici più sensibili, i gatti fra questi ultimi.

A questo elenco vanno aggiunti i mammiferi selvatici e aggredibili dal virus, in particolare quelli che si avvicinano alle zone urbane in cerca di cibo. I cinghiali sono fra questi ultimi.

 

Paradigmi da rivedere

Le conclusioni della ricerca inducono a rivedere con senso critico la diffusa opinione che allevamenti rurali o più banalmente all'aperto sarebbero in grado di offrire maggior benessere e maggiori tutele agli animali, quando al contrario le migliori condizioni di biosicurezza si riscontrano negli allevamenti confinati e in ambiente controllato.

 

Situazione che si riscontra nella maggior parte degli allevamenti cosiddetti intensivi, che andrebbero ribattezzati come allevamenti protetti.

Se la prossima pandemia che colpirà l'umanità non avrà come protagonista l'influenza aviaria il merito sarà in parte il loro, insieme all'efficienza dei servizi veterinari italiani, che molti ci invidiano.