Nei giorni scorsi è apparso su un sito di informazione italiano un articolo dal titolo "Le api provano dolore nelle arnie create dall'uomo? Per la prima volta, studio dimostra che una pratica, in particolare, fa soffrire gli impollinatori".
Un titolo a effetto, che lascia supporre che le api provino dolore nelle arnie, conclusione a cui poi si arriva più o meno esplicitamente, così come che ci sia una pratica in particolare che causa questa sofferenza.
Ma è vero?
No. Sicuramente non nei modi in cui è posta la questione e nelle conclusioni che vuol lasciare intendere.
Cerchiamo quindi di fare ordine nel modo migliore che sia possibile.
Tutto nasce da un articolo scientifico del dottor Derek Mitchell, dottorando di ingegneria meccanica all'Università di Leeds, in Inghilterra, pubblicato sulla rivista scientifica The Royal Society Interface dal titolo "Honeybee cluster - not insulation but stressful heat sink" (in italiano: "Il glomere delle api da miele - non un isolante ma uno stressante dissipatore di calore").
Un lavoro molto accurato dove Mitchell, da buon ingegnere, dimostra con misurazioni e calcoli come il glomere, e in particolare lo strato più esterno del glomere, non abbia nessuna caratteristica tecnica che lo possa far definire un isolante, ma abbia tutte le caratteristiche per essere definito un dissipatore di calore, invitando a ripensare ad alcune pratiche quali la refrigerazione degli alveari e l'uso di arnie dalle pareti troppo sottili.
Un lavoro molto interessante, che prende in considerazione anche quali siano i meccanismi di propagazione del calore all'interno del glomere, con aspetti tecnici e fisici su cui non ho assolutamente la competenza per discutere.
Ma l'articolo apparso sul sito italiano, e poi rilanciato su molti social network, parte da un altro pezzo di Mitchell, questa volta sulla rivista The Conversation, che scientifica non è, anche se il suo motto è "Rigore accademico e stile giornalistico".
E in questo articolo, tradotto più o meno fedelmente in italiano, Mitchell si lancia in considerazioni di biologia e di apicoltura dove, evidentemente, è molto meno ferrato rispetto alla fisica e all'ingegneria.
Per carità, io sono un agronomo, e sicuramente i biologi mi guarderanno con la dovuta sufficienza, la stessa con cui i fisici guardano gli ingegneri, gli ingegneri gli architetti, gli architetti i geometri ecc.; però un po' di biologia l'ho studiata e di apicoltura posso dire di intendermene abbastanza.
Intanto si parte da una pratica, quella del refrigeramento degli alveari, che consiste nel chiuderli in celle frigo, cosa che Mitchell riporta come tecnica per migliorare lo stato di salute della covata.
Bisogna dire che nell'articolo scientifico faceva riferimento a questa pratica in un modo molto più tecnico e appropriato, per quanto non completo, ma vediamo di cosa si tratta.
La refrigerazione degli alveari in celle a 4°C nasce in Canada e negli stati settentrionali degli Stati Uniti come tecnica di svernamento, cioè per superare l'inverno.
In questo caso - come riportava anche un apicoltore dell'Alaska al congresso internazionale Apiorganica a Castel San Pietro Terme nel 2013 - l'obiettivo è quello di mantenere gli alveari a una temperatura costante e decisamente superiore a quella che ci sarebbe fuori, dove si scende normalmente sotto i -15°C, -20°C o peggio.
Quindi in origine questa pratica nasce non come refrigerazione, ma come mantenimento a temperatura controllata proprio perché le api non abbiano troppo freddo.
Poi negli ultimi anni questa pratica ha iniziato a diffondersi anche in stati più meridionali degli Usa, e sta iniziando ad essere usata come tecnica per ottenere il blocco di covata estivo per poi poter fare i trattamenti antivarroa.
Il dubbio, lecito, è se questo uso sempre maggiore del refrigeramento, in particolare di quello estivo, sia opportuno per il benessere degli alveari e anche - aggiungerei - se abbia un senso economico ed ecologico, visto la quantità di energia che consuma.
Da noi la questione non si pone, visto che con i tempi che corrono a nessuno verrebbe in mente di noleggiare container o celle frigo e tenerle accese per 20 giorni per fare il blocco di covata a luglio. Sarebbe economicamente folle.
Poi Mitchell passa a considerazioni sul glomere e sul suo "perché".
Dal momento che ha dimostrato che non è isolante, dice che "il glomere non è una spessa e avvolgente coperta con cui tenersi caldo, ma piuttosto un disperato sforzo per mantenersi vicini al fuoco e non morire".
L'espressione è molto bella. Ma sotto sotto sembra ci sia un'idea: è bene che le api non facciano il glomere perché non è la soluzione ideale, ma un modo disperato di tenersi in vita.
E se c'è, questa idea dal punto di vista biologico non è corretta: nella biologia moderna, da C. Darwin (e A. R. Wallace) in poi, la realtà naturale non è più vista come lo specchio della perfezione, ma come il miglior adattamento possibile all'ambiente.
E il glomere, per quanto termicamente imperfetto, è il miglior adattamento che le api da miele hanno sviluppato per sopportare il freddo.
Per evitare il glomere bisognerebbe abolire l'inverno.
(E no, non sono un negazionista del riscaldamento climatico).
A sostegno di questa interpretazione del glomere come soluzione disperata viene riportato anche un altro passo, citato nell'articolo del sito italiano, in cui Mitchell dice che le api possono anche magiare "i loro piccoli" in caso di freddo.
Questa è una cosa risaputa, ma nell'ottica dell'alveare come superorganismo, deve essere considerata come una sorta di riorganizzazione interna, per ridurre le esigenze energetiche e ottimizzare le risorse alimentari.
Insomma va vista più come una sorta di riassorbimento di tessuti interni, che non come un efferato infanticidio dovuto alla fame e al freddo.
L'altro aspetto che critica Mitchell è lo spessore delle pareti in legno delle arnie, di 19 millimetri, troppo sottile. E questo è vero, per quanto da noi in media siano di 30 millimetri.
Il problema è che poi si lancia in un contrasto improprio tra natura e arnie artificiali, sostenendo che le api sceglierebbero cavità negli alberi con pareti di legno molto spesse, almeno 150 millimetri, sostenendo inoltre che il contenitore (l'arnia o il tronco dell'albero) sia un fenotipo esteso, come le dighe dei castori o le tele dei ragni.
Ma qui gli errori concettuali sono due.
Uno: se è verissimo che l'arnia (o il tronco cavo, o il buco del muro, o il cassone dell'avvolgibile) sono parte integrante del superorganismo alveare, è ben più difficile considerarlo un fenotipo esteso, in quanto non è costruito dalle api.
I favi di cera sì, sono un fenotipo esteso, ma il contenitore no, o per lo meno è molto più difficile da sostenere.
Due: se è vero che le api scelgono il luogo dove costruire il loro alveare, è altrettanto vero che poi devono adattarsi a quello che trovano a disposizione, e non è assolutamente detto che lo trovino come vorrebbero.
Infine sull'espressione "provare dolore", usata nel titolo dell'articolo italiano, il discorso sarebbe molto lungo, abbracciando tutto il problema della percezione del dolore negli invertebrati, e lo faremo un'altra volta.
Ma, per quanto il freddo sia indubbiamente un fattore di stress, è molto difficile sostenere che l'esposizione a basse temperature provochi dolore negli insetti.
Anzi, a livello muscolare il freddo tende sicuramente a portare ad uno stato di intorpidimento, mentre a livello sensoriale non lo sappiamo ancora bene.
E quindi?
Quindi dobbiamo mettere le api nelle condizioni di soffrire il freddo il meno possibile. I canadesi lo fanno chiudendole in frigo, invece che lasciarle fuori a temperature da congelatore, noi dobbiamo farlo migliorando la tenuta termica delle arnie.
Perché non è assolutamente detto che in un'arnia ci stiano peggio che in una cavità naturale (o artificiale) che abbiano trovato da sole. Anzi.
Se l'arnia è fatta bene e collocata in un posto adatto è molto probabile che ci stiano meglio che in altre sistemazioni che l'ambiente naturale (o la città) possa fornirgli.