E’ ancora piccola, ma sta crescendo la zootecnica biologica nel nostro Paese. Il numero di allevamenti di bovini, di pecore, di suini e di polli (ovaiole per lo più) è in costante aumento negli ultimi anni. Certo, nulla a che vedere con le dimensioni degli allevamenti convenzionali (che però si stanno riducendo di numero), ma la crescita degli allevamenti “bio” è un segnale dell’interesse per questo settore. Lo dimostrano i numeri presentati nei giorni scorsi a Firenze, in occasione del decennale di ZooBioDi, l’associazione impegnata nello sviluppo degli allevamenti condotti seguendo i principi della sostenibilità. E’ stato lo stesso presidente, Paolo Pignattelli, a ripercorrere le principali tappe del settore, che ha visto il numero di capi bovini passare da 190mila a 244mila capi nel volgere di cinque anni. Non dissimile la crescita del comparto suino, che fa registrare 27mila capi suini, contro i 20mila del 2002. Crescite nella produzione che vanno di pari passo con l'aumento dei consumi. Un dato per tutti: l'aumento di oltre il 144% del consumo di carni e derivati nel triennio 2005/2007 registrato dagli scaffali della grande distribuzione.
I problemi da affrontare
Dietro a questi risultati positivi si celano però molti problemi ancora irrisolti, problemi messi in evidenza dalle numerose relazioni presentate in occasione del convegno di Firenze. Due i piani di lettura degli argomenti affrontati, quello politico-economico, con i suoi risvolti di carattere normativo, e quello più strettamente tecnico sui cardini fondamentali della zootecnia biologica, il pascolo e la biodiversità.
Sul primo aspetto è stata messa in luce la complessità normativa e l’eccessiva burocrazia che ancora pesa sugli imprenditori zootecnici, nonostante l'applicazione del regolamento Ue 834/2007, che ha sostituito l'ormai obsoleto regolamento del 1991. Una ulteriore semplificazione sarebbe auspicabile, ma senza intaccare serietà e credibilità del percorso necessario a realizzare prodotti di origine animale che possono fregiarsi dell’appellativo di biologico. Una semplificazione che deve andare di pari passo con la definizione di taluni aspetti operativi (non ultimo quello dei prodotti e dei principi utilizzabili nella prevenzione e nella cura delle malattie) senza dover ricorrere al meccanismo delle deroghe, ancora in vigore nonostante la forte riduzione introdotta con il nuovo regolamento comunitario. Deroghe indispensabili in molti casi per consentire il proseguimento delle attività di allevamento, ma che non sono certo in linea con l'immagine di serietà e correttezza che la zootecnia biologica intende portare avanti. In tema di regole il convegno di ZooBioDi ha puntato il dito sulla necessità di un'armonizzazione a livello comunitario per evitare che interpretazioni diverse possano ingenerare confusioni e suscitare inutilmente diffidenze e sospetti nei consumatori.
Il nodo dei pascoli
Bisogna poi fare i conti con alcuni problemi di carattere tecnico strettamente legati allo stesso concetto di allevamento biologico e al suo stretto collegamento con la disponibilità di pascolo. L'allevamento al pascolo deve infatti superare una serie di ostacoli, specie nell'area mediterranea dove si ha una limitata produzione specie in alcuni periodi dell'anno. Sotto il profilo sanitario è necessario ricordare che il pascolo favorisce la diffusione di parassiti, che possono gravemente compromettere le produzioni. Non potendo fare ricorso ai farmaci di sintesi chimica, una possibile soluzione è rappresentata dalla rotazione dei pascoli e delle specie allevate. In pratica in una gestione dei pascoli che tenga conto non solo dei cicli dei parassiti (da interrompere), ma anche del corretto sfruttamento del cotico erboso, magari da migliorare con interventi ad hoc, una sfida sulla quale si stanno ancora confrontando molti ricercatori.
Biodisponibilità
Buoni pascoli e corretta alimentazione devono avere come contropartita la disponibilità di animali capaci di utilizzare queste risorse, cosa non sempre coincidente con la selezione genetica in atto sugli animali destinati agli allevamenti convenzionali, la cui alta potenzialità produttiva chiede alimentazione e sistemi di allevamento dedicati. Di qui la necessità di disporre di un patrimonio genetico ampio dal quale scegliere le razze più idonee a ritmi di allevamento più lenti e a minori risorse alimentari. Una biodisponibilità che si è andata però impoverendo e che ha portato alla estinzione di molte razze, specie in campo suino. Per fortuna interventi mirati da parte del Mipaaf e di alcune amministrazioni locali (l'Arsia della Toscana è fra queste), hanno consentito in altri casi , come ad esempio per le razze bovine, di evitare la scomparsa di alcuni ceppi genetici, oggi preziosi per la zootecnia biologica.
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Autore: Angelo Gamberini