L'immissione in atmosfera di miliardi di tonnellate di anidride carbonica nel corso dell'ultimo secolo ha causato il cosiddetto effetto serra, con il conseguente surriscaldamento globale e il cambiamento del clima, a cui oggi tutti stiamo assistendo.

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Con gli accordi di Parigi (firmati nel 2015) si è stabilito che per contenere gli effetti negativi del global warming ad un livello accettabile, la temperatura media del globo non deve superare la soglia di incremento di 1,5°C rispetto all'epoca preindustriale. E per farlo occorre ridurre drasticamente le emissioni di anidride carbonica (che invece sono in crescita, nonostante gli sforzi di molti Paesi) e cercare di sottrarre dall'atmosfera gas climalteranti, ad esempio sequestrandoli nei terreni agricoli.

 

Da qui la decisione di diversi Governi di promuovere tra gli agricoltori le tecniche di carbon farming, quali ad esempio la non lavorazione del terreno o l'utilizzo di cover crop. L'Unione Europea ha lanciato una propria iniziativa ed è nella fase finale di approvazione un nuovo regolamento incentrato sul sequestro di carbonio nei terreni agricoli.

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Molti citano il carbon farming come una situazione win win, in cui tutti vincono. L'aumento del carbonio, legato strettamente con l'aumento della sostanza organica nel terreno, non solo infatti permetterebbe all'umanità di rallentare i cambiamenti climatici, ma consentirebbe anche di avere suoli più vitali e produttivi.

 

Questa situazione idilliaca, che ha portato alla nascita di una vera e propria "carbon economy" nel settore primario, potrebbe però avere delle potenzialità minori rispetto a quanto prefigurato. A mettere il carbon farming in prospettiva ci ha pensato un gruppo di ricercatori olandesi che ha pubblicato un paper (Carbon for soil, not soil for carbon) che intende sfatare i falsi entusiasmi.

 

Quanta anidride carbonica possono sequestrare i suoli agricoli?

I suoli emersi contengono il più grande stock di carbonio, pari a circa 1.700 Gt (gigaton, 1 miliardo di tonnellate) di carbonio organico sequestrato nel primo metro di terreno. Quattro volte il carbonio presente nei vegetali che crescono sulla Terra e due volte il carbonio presente in atmosfera, soprattutto sotto forma di anidride carbonica. Nonché 160 volte l'attuale emissione annua di anidride carbonica dovuta all'attività umana. Ma quanto carbonio potrebbe  ancora contenere la Terra?

 

L'agricoltura ha sicuramente ridotto la quantità di carbonio presente nei suoli, rispetto alla situazione di Terra vergine. Paragonando il contenuto di carbonio nei suoli attuali, con quello della Terra ante agricoltura (considerabile satura), sarebbe dunque possibile avere un'idea di quanto carbonio sarebbe possibile stoccare nei terreni.

 

Le più recenti stime ci dicono che il terreno ha perso circa 116 Gt di carbonio (pari a 430 Gt di anidride carbonica) negli ultimi 12mila anni, proprio a causa dell'attività umana. Pensando di poter "rimettere" nel suolo due terzi dell'intero potenziale (stima piuttosto ottimistica), i terreni potrebbero ospitare circa 285 Gt di anidride carbonica, che equivalgono a sette anni di emissioni di anidride carbonica dell'umanità, che oggi si assestano a circa 39 Gt all'anno (e sono in crescita). Ecco che già questi numeri ridimensionano fortemente gli entusiasmi intorno al carbon farming.

 

L'idea di modificare il settore agricolo globale in poco tempo, orientandolo verso il carbon farming, è già di per sé ottimistica. Ma anche se questo obiettivo fosse raggiunto e non producesse ulteriori emissioni di gas climalteranti rispetto allo status quo, permetterebbe all'umanità di guadagnare pochi anni per modificare drasticamente il proprio assetto produttivo, virando verso la neutralità climatica.

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Attenzione, non tutti i suoli sono uguali

Bisogna poi tenere in considerazione un altro fattore: non tutti i suoli sono uguali e quindi non tutti i suoli sequestrano carbonio alla stessa velocità e sono in grado di trattenerlo con la stessa efficienza. Un suolo sabbioso, ad esempio, trattiene meno carbonio rispetto ad un suolo argilloso o di medio impasto. Inoltre, fanno notare gli autori, il tasso di sequestro non è affatto lineare nel tempo, ma decresce. Nei primi anni il sequestro è più veloce, ma in quelli successivi rallenta ed è sempre più difficile "far stare" il carbonio nel terreno.

 

Ad esempio, un terreno agricolo arato riconvertito a prato stabile, considerato oggi l'agroecosistema con il più alto livello di carbonio sequestrabile, avrà un sequestro più veloce nei primi anni (ad esempio di 2 tonnellate/anno) e impiegherà molti anni prima di raggiungere la saturazione, con tassi di incremento dello stock in decrescita.

 

Inoltre occorre fare due considerazioni. La prima è che un approccio di carbon farming ha senso solo se si guarda l'aumento di carbonio nel suolo nel suo complesso. Se per praticare la minima lavorazione l'agricoltore ha acquistato delle nuove attrezzature, le emissioni per la loro produzione/trasporto/operatività vanno conteggiate nel computo finale.

 

In più il sequestro di carbonio va valutato sul lungo periodo, in quanto il ciclo del carbonio è estremamente complesso e non è detto che lo stock presente in un dato momento si mantenga nel tempo. Mutamenti del clima, cambio di approccio agronomico, semina di diverse colture possono infatti influenzare la presenza di carbonio.

 

C'è infine la questione dell'aumento di fertilità dei terreni. In generale è vero che l'aumento di sostanza organica porta benefici: migliore attività biologica, migliore infiltrazione dell'acqua, migliore struttura e riduzione dell'erosione. Ma tuttavia questi aspetti positivi variano molto da suolo a suolo e non è detto che portino sempre ad un aumento delle produzioni agricole.

 

Si pensi alla tecnica della semina su sodo su terreni argillosi nella coltura del mais. In molti casi la non lavorazione del terreno porta ad una diminuzione della produzione di granella a causa di una maggiore compattezza del terreno e alla difficoltà per le radici di esplorare il suolo.

 

Carbon farming sì, ma valutando costi e benefici

Dal lavoro svolto dai ricercatori olandesi emergono due punti chiave. Primo, il potenziale di mitigazione climatica derivante dal sequestro di carbonio organico nel suolo è modesto e dipende dal contesto. Secondo, la correlazione tra il sequestro di carbonio nel suolo e il rendimento delle colture è fortemente dipendente dal contesto agropedoclimatico. Pertanto, il carbon farming non è certamente un'opzione vantaggiosa in tutte le condizioni.

 

Allargando lo sguardo è necessario fare altre due considerazioni. Prima, il fine ultimo dell'agricoltura deve rimanere la produzione di cibo, soprattutto in un contesto di aumento della popolazione globale. Dunque, a meno che non si modifichino le nostre abitudini (meno consumo di carne, ad esempio) sarà necessario aumentare le produzioni, e questo è potenzialmente in contrasto con il carbon farming.

 

Parimenti, occorre essere sinceri con gli agricoltori, a cui spesso viene decantato il carbon farming come una fonte di reddito alternativa, perseguibile attraverso il sequestro di carbonio e l'emissione di carbon credit da rivendere sul mercato volontario. Ad oggi infatti il prezzo dei carbon credit è molto basso (intorno ai 15 euro) e la quantità di carbonio sequestrabile nei terreni non è sufficiente a rendere questo business remunerativo, soprattutto se si considera l'effetto saturazione.