La recente sentenza del Consiglio di Stato, n. 1162 del 19 febbraio 2019, ha riaffermato un principio importante: l’attività agrituristica non può essere assimilata a quella alberghiera. Quindi anche la tariffa applicata con la Tari non può essere la stessa. La sentenza, confermando la pronuncia di primo grado - Tar Umbria, sentenza n. 77/2018, pubblicata il 1° febbraio 2018 - ha accolto in toto gli argomenti delle aziende ricorrenti.
I giudici hanno ricordato come le attività di ricezione ed ospitalità esercitate da imprenditori agricoli siano connesse all'attività agricola principale ai sensi della legge quadro sull’agriturismo 20 febbraio 2006, n. 96, contrariamente agli alberghi. L’esercizio dell’impresa agricola è unico e inscindibile dall’attività agrituristica che per nessuna ragione può essere scissa da quella agricola.
L’agriturismo, a differenza delle altre strutture, è soggetto a restrizioni e condizioni di esercizio uniche, tra cui un limite nei giorni di apertura e nel numero di pasti o presenze complessive annue, il che significa una diversa capacità contributiva rispetto agli alberghi.
La stessa produzione di rifiuti è diversa: per le attività agricole si utilizzano imballaggi riutilizzabili, mentre per la ristorazione è obbligatorio l’utilizzo di esclusivo di prodotti propri o delle aziende del territorio, con una considerevole riduzione di rifiuti.
I giudici hanno rilevato che il comune avrebbe dovuto formulare una tariffa realisticamente proporzionata alla connotazione specifica dell’attività ed all’effettiva capacità di produzione per quantità e qualità dei rifiuti: pertanto, il mero utilizzo del metodo normalizzato per formulare le tariffe della Tari non basta quindi a comprendere la particolare forma di attività dell’agriturismo, che non può essere qualificata semplicemente come "utenza “non domestica”". Ne discende che i comuni sono tenuti a formulare una tariffa ad hoc per gli agriturismi, giustamente proporzionata alla loro capacità contributiva e connessa alla reale produzione di rifiuti.