"L'istituto ha un'origine nobile. È nato nel 1959 ad opera di Giuseppe Medici, ministro per poco più di otto mesi e ciò nonostante considerato la figura forse più importante dell'agricoltura nella politica del dopoguerra. Siamo negli anni delle riforme agrarie, costellati di polemiche di ogni genere; Medici si rende conto che manca una visione condivisa della realtà e promuove uno studio non della società agricola, ma di quella rurale, anticipando in qualche modo lo studio e la cultura del territorio. In particolare e in maniera inusuale per l'epoca, Medici fa in modo che gli studi si concentrino su una dimensione numerica. L'Insor, dunque, sin da subito si concentra sullo studio e sul tentativo di misurare i fenomeni, o di analizzare i dati per arrivare a comprendere quali sono le quantità associate ai fenomeni; non a caso collabora da sempre con l'Istat nei censimenti decennali sull'agricoltura.
A fianco dello studio più esteso della società rurale, il tema dei prodotti tipici. In quell'epoca e in maniera bipartisan, tutti gli schieramenti politici si concentrano sull'autonomia alimentare, considerando le produzione tipiche e di nicchia di scarsa importanza, da lusso gastronomico; l'istituto invece si rende conto che queste produzioni dal valore intrinseco elevato possono avere dei vantaggi commerciali e che da un lato tenerle nella giusta considerazione significa avere rispetto per la realtà, dall'altro rappresentano in qualche modo un destino dell'agroalimentare italiano.
Oggi l'Insor raggruppa tutta la rappresentanza del settore primario: Coldiretti, che è un membro storico, Cia, Confagricoltura, Confindustria, le grandi associazioni cooperative e pezzi del mondo della trasformazione; abbiamo insomma una platea molto significativa.
Noi continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto: da una parte lo studio dell'evoluzione sociale di questo mondo cercando di associarlo a una dimensione quantitativa, dall'altro il censimento delle produzioni tipiche focalizzandoci sulla loro potenzialità di impiego economico".
Qual è la differenza tra 'mondo agricolo' e 'mondo rurale'?
"Da sempre il mondo agricolo è un mondo molto semplice e legato alle produzioni agricole. Il mondo rurale rappresenta un concetto più esteso, che contempla la presenza dei trasformatori a fianco degli agricoltori e, a tanti livelli diversi, industria e artigianato, in ambienti che essenzialmente si connotano come rurali non per la prevalenza dell'attività agricola, ma per fattori diversi, quali la bassa densità di popolazione. Non c'è una risposta esatta alla domanda su cosa oggi sia rurale, ma c'è senz'altro una distinzione forte tra il mondo rurale e quello cittadino, molto più connotato dall'intensità relazionale e di orientamento al mondo dei servizi. Ci si potrebbe chiedere se studiare il mondo rurale abbia ancora senso: credo di sì. L'Italia è per certi versi il territorio più connotato dalla dimensione cittadina; i nostri paesi spesso sono piccole città, comunità interconnesse e non agglomerati quasi casuali di abitazioni. Il mondo rurale è identificabile con tutto quello che non è urbano e in cui l'agricoltura ha un ruolo rilevante, che sta crescendo con la consapevolezza del ruolo del paesaggio e del territorio".
Romolo e Remo, Caino e Abele. A cosa ha portato la fine della guerra tra agricoltori e cacciatori?
"Torniamo all'epoca della domesticazione dei cereali in Mesopotamia, dove avviene il passaggio. Il cacciatore per certi versi rimarrà vivo anche se, scomparsa la necessità della caccia per la sopravvivenza, solo come figura estetica e di status. La 'guerra', in effetti, non è tra agricoltore e cacciatore ma tra il primo, che comincia a selezionare e coltivare, e il raccoglitore, che andava a spigolare in giro in natura.
La storia, così come la conosciamo, è la storia dell'agricoltura e la storia dell'agricoltura è la storia dell'umanità. Quando si afferma l'agricoltura inizia la civiltà urbana, a testimonianza che la relazione tra agricoltura e mondo urbano è molto più intensa di quanto si possa ipotizzare: solo nel momento in cui, attraverso l'agricoltura, divengono disponibili grandi quantità di derrate alimentari, diviene possibile ipotizzare conglomerati dove solo pochi si occupano del settore primario mentre altri passano ad altre attività.
Non può esistere una civiltà cittadina e urbana se non sostenuta da un'agricoltura che renda disponibile il cibo e, in questo senso, è sbagliato mettere in contrapposizione le due realtà".
In che modo industrializzazione e urbanizzazione hanno influito sul tessuto sociale del mondo rurale?
"Guardando al mondo agricolo, soprattutto in Italia, si corre il rischio di avere uno sguardo arcaizzante, romantico e poetico, ma del tutto scollegato dalla realtà. Da un punto di vista tecnico e conoscitivo, nel mondo agricolo avvengono tantissime rivoluzioni e lo sviluppo di conoscenza è molto più costante di quanto ci si immagini. Nella realtà non esiste una dicotomia tra l'industria come luogo di sviluppo di scienza e tecnologia e il mondo agricolo come luogo di vicende romantiche, magari faticose ma comunque ancestrali.
La storia dell'agricoltura ci insegna che le innovazioni nel settore primario segnano la storia mondiale e dell'umanità. Una pagina, tanto per dare un esempio, è data dal valore dell'agricoltura in quello che è stato lo Stato più ricco della penisola: il Veneto. La ricchezza del Veneto, da Lepanto in poi, non è legata - come si crede - ai commerci e alle attività industriali. La flotta di Venezia passa rapidamente dall'essere una flotta commerciale, di trading, a una dedicata a sostenere l'esportazione prevalentemente di prodotti agricoli. Le ville venete, al di là dei racconti, non sono affatto i luoghi dove i patrizi veneti andavano per soggiornare amabilmente mentre organizzavano le loro piccole corti private, bensì i principali centri di controllo delle più importanti aziende agricole dell'epoca. La resa per ettaro, anche in ambito cerealicolo, in Veneto era nettamente superiore a quella di qualunque altro territorio dell'epoca e questo grazie ai sistemi di irrigazione all'avanguardia e alla selezione delle sementi.
L'agricoltura in Italia è stata uno dei grandi strumenti di civilizzazione, condivisione della conoscenza, di sperimentazione e di ricchezza, epoca per epoca, rispetto ad altre comunità.
Nella Roma antica, in epoca repubblicana, le varietà di olivo disponibili erano tra le quattro e le sette. Oggi sono più di mille, grazie a una secolare e continua attività vivaistica di selezione e ibridazione che ci ha portato a essere il paese con la più ampia varietà di tipologie. La produzione e l'esportazione di olio di oliva italiano si basa oggi su oltre un centinaio di varietà diverse, mentre la Spagna, che produce quantità doppie rispetto alle nostre, si basa su non più di sette o otto varietà; il 95% lo fa con quattro. L'Italia presenta in questo campo un'articolazione varietale enorme.
Altro esempio è quello dei vitigni autoctoni, per anni ritenuti interessanti e peculiari, ma fonte di vini non completi. L'idea era che fossero stati abbandonati perché scientificamente si era dovuta riconoscere la prevalenza dei vitigni di origine francese, che peraltro venivano dalle colonizzazioni latine romane, che erano meglio orientati alla produzione vitivinicola. Non è affatto così: i vini autocnoni italiani non sono affatto frutto di processi spontanei, ma di una sapienza profondissima che ha portato, esattamente come per l'olivo, a generare una grandissima quantità di varietà, ciascuna distintiva per caratteristiche diverse, in alcuni casi per la resistenza, in altri per quantità e caratteristiche del prodotto… non c'è nulla di spontaneo e frutto del caso. I vitigni autoctoni sono il risultato di grandi studi ed esperienze tramandate nel tempo. La conseguenza è che oggi la vivaistica italiana è, in generale, forse quella più importante al mondo. Nell'ambito delle barbatelle, dobbiamo sapere che quando beviamo un vino africano, australiano, cileno o cinese, una volta su due la barbatella è stata prodotta in Italia e, almeno per un 25%, viene da Rauscedo, in Friuli".
Dopo la Seconda guerra mondiale, con l'avvento della prima vera meccanizzazione, il contadino diventa agricoltore e prende piede un'idea di agricoltura non più legata alla sola sussistenza. Sono i prodromi dell'attuale sistema agroindustriale?
"La nostra agricoltura non è quel racconto triste e sofferente di una società marginale e in qualche modo poco colta, anche se magari buona e orientata a valori umani significativi, bensì qualcosa di estremamente profondo, preparato e di una cultura molto diffusa. I nostri agricoltori non sono affatto simili allo stereotipo del contadino bifolco. La conferma è che l'industria italiana delle macchine agricole è leader mondiale e la cosa che la caratterizza è la capacità di produrre macchine per ogni tipo di specializzazione: questo perché l'industria si è confrontata sin dall'inizio con un'agricoltura estremamente articolata. Ci siamo abituati a vedere l'Italia come un paese bello ma eccessivamente frazionato e individualista, perdendo la capacità di leggerlo come un paese ricco di soggettività e personalità, capace di generare domande qualificate e articolate.
Il sistema agroalimentare italiano è in qualche modo vocato a tante dimensioni diverse e sicuramente all'estrema ricchezza di varietà, ma questo non può essere disgiunto dalla dimensione tecnologica che a volte diventa anche un vezzo, per cui nonostante il successo e la larga applicazione del sistema cooperativistico e consortile, l'idea di essere proprietari esclusivi di un macchina per poterla usare quando si vuole e farsene vanto nel bar del paese rimane ben radicata.
L'idea di un'agricoltura ancestrale in Italia è più un racconto che altro. Pur essendosi affermato in maniera visibile nel dopoguerra, l'elemento tecnologico ha sempre fatto parte di un'agricoltura particolarmente colta e capace di produrre alto valore".
Oggi, molti bambini non hanno idea di come sia fatta una patata o una gallina. Quando e perché il cittadino medio ha perso il contatto con il mondo agricolo?
"Quando molte famiglie si sono allontanate dalla durezza della vita contadina verso le attività industriali e di servizio, scoprendo cose come la settimana corta e il weekend libero, hanno teso a trasferire ai propri figli il senso di libertà che derivava dai cicli lavorativi intensi e cadenzati della campagna, che in qualche modo espropriano l'agricoltore della propria autonomia e libertà. Soprattutto per quelli che avevano radici contadine, il mondo agricolo non è quello dell'amarcord o romantico, ma quello da cui tenere indenne la prole. Oggi si parla di ritorno all'agricoltura, ma in realtà il fenomeno non è questo. Siamo ancora in una fase in cui il numero degli addetti cala, così come cala la superficie agricola utile. Difficilmente un figlio o un nipote di contadino continua l'attività di famiglia.
Qualcosa però sta cambiando per quanto attiene alle emozioni positive attive associate a questa parola. Quello che sta succedendo è che la quantità di emozioni positive è nettamente superiore a quelle di carattere negativo quando le si associa al concetto di agricoltura; inoltre, il totale delle emozioni negative, sia passive che attive, rimane comunque inferiore a quello delle emozioni positive nettamente attive. Non è quindi ancora vero che si stia assistendo a un'inversione di tendenza con un ripopolamento e una riscoperta dell'attività agricola, ma il problema di un diffuso disinteresse o ostilità verso questa attività si sta risolvendo. Il contadino non è più caratterizzato da uno status sociale minore, ma è diventato una figura stimata".
Nell'epoca dei social si è assistito a un fiorire di mode non solo alimentari e legate spesso al mondo agroalimentare. Ce le spiega dal suo punto di vista?
"Noi stiamo operando in una società che è fortemente orientata alla ricerca di varietà, di cose buone, di specificazione, di cose che abbiano una forte personalità, di ricchezza, di cose che abbiano connotazioni distintive. Per anni ci siamo spaventati pensando che i fenomeni della globalizzazione avrebbero portato alla standardizzazione di tutto, e su questo abbiamo anche impostato delle politiche. Questa, invece, per fortuna non è la verità, non è un principio generale, né nulla che possiamo definire come elemento di certezza 'ora e per sempre'.
Quello a cui stiamo assistendo è una domanda di cose 'diverse'. Il nostro sistema economico, il più articolato e frammentato dell'Occidente e a cui sono rimaste solo le piccole e medie imprese, è più coerente con l'evoluzione dell'economia mondiale di quanto possiamo credere.
Le logiche di concentrazione hanno portato a conseguenze di carattere maniacale. Ad esempio, nel settore della birra abbiamo tanti brand concentrati nelle mani di tre unici operatori internazionali, ma mentre questo avveniva tra rivoluzioni economiche e organizzative, sotto i loro piedi esplodeva il fenomeno dei birrifici artigianali. Lo stesso fenomeno si è verificato in tanti altri settori, come la trasformazione casearia, nel mondo delle carni o dei cereali… quindi, dal punto di vista degli orientamenti mondiali, il nostro paese si è ritrovato perfettamente coerente con le evoluzioni globali.
Il mondo, in sostanza, non è più tanto orientato sui grandi produttori, ma sempre più su prodotti e servizi che abbiano una grande caratterizzazione e identità. Questa è per noi un'ottima notizia, data l'estrema articolazione del nostro tessuto imprenditoriale. Certo, in tutte queste vicende non manca un elemento di manipolazione e di fake: di fronte all'allargarsi delle offerte, il rischio che si insinui qualcosa di poco simpatico e scorretto, ove non del tutto falso, è tutt'altro che minimo. In un mondo dove la comunicazione sta prendendo straordinariamente piede, c'è il rischio che chi riesce a manipolarla meglio, faccia da padrone: non stupisce quindi che molto di quanto si incontra debba essere ascritto, nella migliore delle ipotesi, alla sfera della narrazione. I grani antichi, come il Senatore Cappelli, sono una cosa bellissima, un patrimonio dell'umanità, ma il Senatore Cappelli non è un grano antico come lo si immagina, bensì qualcosa di molto più vicino a noi (1915). Il discorso vale anche, per esempio, per il Kamut, scoperto nelle piramidi egizie, che è un grano di qualità buona ma non eccellente, inferiore a molti altri grani duri e, proprio per questo, utilizzato spesso per la pastificazione senza che il suo uso fosse dichiarato. Il fascino delle sue origini esotiche e un abile marketing costruiscono un racconto quasi onirico delle sue supposte proprietà e compiono il miracolo: oggi ci troviamo al supermercato la pasta di Kamut, che ha un valore intrinseco inferiore rispetto alla pasta di grano duro, venduta a un prezzo maggiore.
Il consumatore, comunque, è sempre più consapevole e per questo ritengo che queste mode, tutto sommato poco giustificate, siano desinate a durare poco.
Alle mode vanno aggiunte le culture spiacevoli, come quella del 'senza'. Siamo stati dei pazzi a nutrire per decenni i nostri figli con prodotti contenenti olio di palma o siamo di fronte a un'esagerazione? Discorso simile per il biologico, soprattutto quando sconfina nell'estremismo: sfido chiunque, armato delle migliori strumentazioni, a dimostrare se un riso brillato è o meno di origine biologica".
Che relazione si crea tra queste tendenze e il mondo agricolo? E quali sono gli effetti di tali relazioni?
"Le relazioni sono importantissime e forti. Il fatto che quello dell'autonomia alimentare sia per molti versi un problema risolto almeno dal punto di vista produttivo, sebbene non da quello della distribuzione sul pianeta, porta a una ulteriore crescita della domanda. La coltivazione della quinoa nelle Ande, dove la produzione di questa pianta si era ridotta sostanzialmente a un ricordo, ha significato una notevole crescita del reddito.
Il contadino diventa agricoltore e poi, grazie a una tecnologia che gli consente di 'staccarsi' dai campi, imprenditore agricolo. La ricchezza di domanda genera una possibilità di sviluppo dell'offerta che trova riscontro sui mercati e quindi, dal punto di vista dell'agricoltore, il fenomeno va considerato molto positivo.
Dal punto di vista etico credo sia importante non inseguire le mode a rischio di trascurare il principio di realtà, ma nell'affrontare questo argomento bisogna fare attenzione: è compito dell'agricoltore diventare operatore sociale e stabilire quale debba essere la dieta del suo consumatore? Ritengo di no".
In che modo le reti telematiche stanno cambiando il mondo rurale?
"Premesso che la pochezza strutturale della rete e il difficile accesso all'interconnessione rimangono uno dei grandi problemi dell'agricoltura italiana, l'evoluzione in questo senso sta avendo grandi effetti. La rete è un grande strumento abilitante sotto tanti aspetti diversi, a cominciare dalla produzione e fino alla condivisione della conoscenza qualificata. Gli agricoltori sono molto più connessi di quanto si creda e la rete alimenta processi di formazione continua.
Un ulteriore aspetto è quello del marketing: in un mercato che ricerca sempre di più prodotti peculiari e specifici, le grandi catene distributive sono inadatte a mettere in contatto tutta la domanda e tutta l'offerta. Entra allora in campo l'e-commerce, che sta già diventando qualcosa di importante e in futuro diverrà fondamentale. È interessante notare che sono proprio gli agricoltori, generalmente immaginati come categoria retrograda, ad avere collettivamente più chiara la rilevanza della proprietà dei dati. Le macchine agricole producono e raccolgono una quantità di dati enorme e nel settore primario, a differenza di altri, è da tempo viva la preoccupazione che questi rimangano di proprietà e a disposizione della categoria per eventuali utilizzazioni, rese possibili da soggetti intermedi quali quelli della ricerca, della cultura e della scienza".
Agricoltura di precisione e selezione delle sementi ci porteranno verso un'oligarchia agroalimentare?
"Sì. Questo è un tema delicatissimo in cui sociologi e rappresentanti del mondo agroalimentare devono impegnarsi a fondo, per capirlo e dimensionarlo. Il fenomeno dell'orientamento generale verso i prodotti di nicchia e la differenziazione della domanda può rappresentare l'antidoto a un fenomeno di accentramento che potrebbe sfociare potenzialmente nel monopolio, ma rimane la necessità di reagire al pericolo che è molto reale. Come farlo è un problema di categoria e di sistema, che va affrontato senza demonizzare nessuno. In questo è importantissima la condivisione dei dati che, in alcuni casi, rappresentano un bene comune.
Si dice che oggi la risorsa più importante non sia qualcosa di tangibile, ma la massa di dati e informazioni che tutti noi produciamo in ogni azione che compiamo. Pochissimi di noi, però, hanno la capacità di interpretare i dati per comprendere i fenomeni. Da una parte la domanda dei consumatori va verso le nicchie, dall'altra troviamo autostrade, come nel caso dell'industria sementiera o dei dati, che portano verso una concentrazione straordinaria".
L'agricoltura vista con gli occhi dei protagonisti del settore.
Per i 30 anni di Image Line abbiamo voluto dar voce ai principali Istituti, Confederazioni e Associazioni che, dall'agrimeccanica all'agroalimentare, passando per la zootecnia, hanno tracciato il quadro presente e futuro del settore primario