Elogio della sinuosità, la pera è forse il frutto più sinuoso di tutti i “fratelli fructi”, come avrebbe detto San Francesco d’Assisi. Elegante ma essenziale, sinonimo di tanta dolcezza al punto da essere paragonata alla Madonna, eppure allo stesso tempo provocante.

Sognare una pera, sostiene chi è esperto nel mistero dell’interpretazione dei sogni, implica risvolti sessuali, è un richiamo al sesso femminile.
Un frutto così affascinante da meritare un componimento di Erik Satie, musicista che ebbe un suo ruolo fra le avanguardie artistiche del Novecento, e che – un po’ per divertissement – scrisse Trois morceaux en forme de poire. Bizzarra, ma dicono rilassante, la sinfonia scritta dal pianista francese ossessionato dal numero tre.
Tutt’altro genere, per rimanere cullati dalle note del Blasco nazionale (sarebbe meglio dire “caricati”), la pera di “…chi non vespa più e si fa le pere”.

La pera gode una discreta iconografia nelle scene sacre così come in quelle profane, ma sempre con un valore simbolico.
Una delle aree a più forte vocazione di coltivazione delle pere è la Romagna, come testimonia il fatto che al museo di Arte sacra di Cesena sia custodita la Madonna della pera del Francia (1450-1517).
Artista bolognese poliedrico, il Francia fu pittore, orafo e medaglista che, dopo vari incarichi, anche pubblici, a Bologna, approdò a Mantova come pittore di corte, assorbendo la visione artistica di Perugino e innescando una sorta di ammirazione/invidia nei confronti di Raffaello, tale che alla vista dell’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello cadde in uno stato depressivo così accentuato da smettere di dipingere.

Più antica (risale al 1420) la tempera su tavola di Maestro veneto, raffigurante un’altra Madonna della pera, ancora piuttosto ancorata a una visione Trecentesca grondante oro (e in questo caso anche bizantina). La potete ammirare alla Pinacoteca comunale di Cesena.
Sessant’anni circa più tardi, possiamo immergerci nel “linearismo fantastico del tardo Crivelli”, come testimonia Luca Bortolotti nel suo libro La natura morta, (2003) Giunti editori. L’artista dipinge una Madonna col Bambino incorniciata da festoni raffiguranti anche pere. Destinato ad essere il pannello centrale del polittico del Duomo di Camerino, si può ammirare a Milano, alla Pinacoteca di Brera.

Ho citato prima la corte dei Gonzaga e, da mantovano, mi preme lanciare un messaggio (il sisma del 20 e 29 maggio scorso ha ferito il patrimonio artistico e culturale di Mantova, danneggiando anche la Camera degli Sposi del Mantegna: chi volesse aiutare la mia bellissima città vada sul sito http://www.societapalazzoducalemantova.it/ o www.facebook.com/SaveTheDucalPalaceOfMantua).
Lorenzo Bonoldi, storico dell’arte che mi ha fatto da consulente a distanza nell’approfondimento di alcuni aspetti qui trattati, è fra i più solerti nel promuovere l’urgenza e la necessità di restauri.

Vi chiedo scusa della divagazione e mi sdebito con il lettore per la pazienza.

Ritorno alla pera, ma mi fermo a Mantova. Precisamente a Santa Maria della Vittoria, in via Fernelli. La chiesa è un gioiellino tardogotico, forse progettato da Bernardino Ghisolfo. Oggi è sconsacrata ma ospita mostre e incontri umanistici, grazie agli Amici di Palazzo Te.
Venne costruita nel 1496 sotto Francesco II Gonzaga, quarto marchese di Mantova per celebrare la vittoria del re di Francia, Carlo VIII, nella battaglia di Fornovo (gli storici parlarono invece di una sostanziale parità nell’esito fra i francesi e la forza antagonista, composta dagli eserciti di Milano e Venezia, capeggiati dal Gonzaga).



Mantova, Madonna della Vittoria
 

La chiesa ospitava la pala del Mantegna dedicata proprio alla Madonna della Vittoria, ora uno dei pezzi forti del Louvre. Qui, tra i frutti che pendono dai festoni (mi verrebbe da dire “dal greening”, visto che Agronotizie parla soprattutto di agricoltura…) della tela dipinta dal maestro padovano, compaiono anche le pere.

Seguire l’apparizione del frutto nelle testimonianze artistiche ci porta dal Piemonte (nell’oratorio della Parrocchia di Galliate, nel Novarese), al Veneto, per scendere in Calabria dove si può trovare un’opera di Paolo Di Ciacio, maestro del XV secolo.

Ma oltrepassiamo il confine e approdiamo idealmente in Germania, dove il solito soggetto sacro della Madonna della Pera assume le sembianze di un’incisione di Hans Sebald Beham, o di un piccolo ma intrigante e pregevole olio su tavola di Albrecht Dürher.
La Vergine della Pera è una delle ultime opere dipinte dal pittore tedesco. Risale al 1526 e viene ultimata quando la riforma protestante è entrata in vigore da poco, ridimensionando il culto della Vergine e dei Santi e generando effetti anche sulle rappresentazioni artistiche. Oggi la tela di Dürher è custodita agli Uffizi di Firenze.

A Roma, una manciata di anni prima, artisti del calibro di Giovanni da Udine ai Palazzi vaticani e a villa della Farnesina (residenza suburbana della famiglia Chigi), lasciano il segno dipingendo anche pere fra festoni e grottesche, suggestivo rimando alla casa di Nerone e al mondo imperiale romano.

Sull’asse lombardo fra Milano e Cremona, oggi così complicato da percorrere in treno, nascono Giuseppe Arcimboldi (1526-1593) e Vincenzo Campi (1536-1591).
Il primo, visionario compositore meneghino, non tralasciò di sperimentare le “teste reversibili” con frutti e ortaggi, affascinanti e giocose raffigurazioni allegoriche delle stagioni (o delle professioni, se pensiamo al Giurista o al Bibliotecario); il secondo, nato all’ombra del Torrazzo, concentrò la propria produzione artistica anche su scene di genere, come quello dei mercati di frutta e verdura.





Giuseppe Arcimboldi, L'imperatore Rodolfo II in veste di Vertumno

 

Siamo alla fine del Cinquecento e sta per verificarsi una rivoluzione in grado di incidere profondamente sulla storia dell’arte occidentale. Con una osmosi culturale fra Lombardia e Spagna, compaiono le prime nature morte. L’uomo scompare, non è nemmeno più una figura. Rimane la “still life”, la natura morta.
Seppure molto fluidamente, come sanno essere la storia e – abbiamo visto – la pera, il genere si afferma ai primi del Seicento. Non soltanto grazie a quel genio di Caravaggio.

A Milano ne lascia testimonianza Fede Galizia (1578-1630), una delle poche donne che dipingono all’epoca e con una biografia piuttosto lacunosa, mentre in Spagna l’autore è Juan Sànchez Cotàn (1561-1627).
Proprio in Fede Galizia uno storico dell’arte del calibro di Flavio Caroli vede una pioniera per qualità e precocità. Siamo nel 1602 quando Fede Galizia dipinge il quadro Alzata con prugne, pere e una rosa (o una peonia).
La natura morta diventa così la “faccia delegata dell’interiorità”, nelle parole di Flavio Caroli, nel libro Il volto e l’anima della natura (2010) Oscar Mondadori.





Fede Galizia, Alzata con prugne, pere e una rosa (o una peonia)

 
Natura morta sì, ma con un’anima: quella trasmessa dall’artista, nell’atto hic et nunc del dipingere.
La pittura olandese, così sedotta dalla realtà e dalle nature morte, rappresentata con minuzia esasperata, al punto da farle sembrare fotografie, non è indifferente al fascino del nostro frutto.
E se il riflesso delle pere nel piatto d’argento che potrete ammirare alla Galleria palatina di Firenze non è una prova di maestria dell’arte pittorica di Willem van Aeist, guardate come sono state rese le trasparenze del vaso di cristallo in quella natura morta con frutta del 1652.
Si percepisce persino la fragilità del cristallo, ancora di più che nella tela del Maestro di Hartford Natura morta di fiori e frutta, custodita all’Hartford Wadsworth Atheneum, nel Connecticut (Usa).

Per nulla idealizzate le pere ritratte a metà del XVIII secolo da Giacomo Ceruti (custodite a Brera) insieme a zucca e noci. L’artista, più noto come il Pitocchetto, per la sua attrazione verso il mondo dei poveri e dei mendicanti, spiana la strada al Secolo dei Lumi, dove la conoscenza ambisce ad essere moderna, critica e se possibile enciclopedica.

La natura morta con melone e pere del 1770 di Luis Egidio Meléndez è l’ultimo flash prima di approdare nella Francia dei tre Paul: Verlaine (che citiamo e basta), Cézanne e Gauguin.

L’impressionismo non trascura il genere delle nature morte ed esalta la più ampia libertà espressiva degli artisti, qualsiasi sia l’oggetto ritratto.




Paul Cézanne, Tavolo di cucina

 
Tra i due pittori corre un abisso: fra il Tavolo di cucina di Cézanne, oggi al museo d’Orsay, e la Natura morta con mele, pere e ciotola di Gauguin (in Massachusetts) la distanza è piuttosto ampia come fra chi sovverte addirittura le regole della prospettiva in una ridondanza di oggetti (il primo), e chi invece punta alla nitidezza e al rigore, in un percorso di semplificazione iniziato dopo la scoperta di Tahiti (il secondo).

È invece proto-cubista la natura morta Pane e fruttiera su un tavolo di Pablo Picasso, esposta a Basilea. Un quadro ancora imbevuto dei segni di Cézanne e di Henri Rousseau e lontano dalle esasperazioni che tutti noi abbiamo a mente in quadri come Guernica.

Concludiamo questa riflessione sulla pera planando su uno dei mercati più famosi del Mediterraneo. Quello palermitano della Vucciria, ritratto da Renato Guttuso nel 1974, in una maxitela a dimensione quadrata (tre metri per tre). Un mercato reale, rappresentato dal pittore siciliano in modo complice, sensuale, malizioso.
Lì, ammirata, non poteva non esserci la pera…




Pablo PicassoPane e fruttiera su un tavolo