Nutre, struttura, trattiene l'acqua, ma porta con sé alcune criticità e polemiche. Pure diversi limiti oggettivi nell'utilizzo. Per comprendere meglio come stanno le cose, AgroNotizie ha intervistato proprio lui: il letame.
Partiamo dalle origini: Lei da dove arriva, possibilmente senza fare battute di tipo proctologico…
"Sì, meglio glissare sul punto. Però, Le posso dire che derivo da quasi cinque milioni e mezzo di capi bovini registrati in Italia dal censimento Istat. Nel 1921, sorpresa, erano più di sei milioni. Solo che mentre adesso gli allevamenti bovini sono concentrati quasi tutti nell'area centrale della Pianura padana, un secolo fa i capi erano diluiti in quasi tutto lo Stivale. Gli Italiani erano in larga maggioranza contadini e in ogni fattoria o podere c'era per lo meno qualche vacca da latte. Un po' meno da carne. Ma non c'era campo che non potesse contare su di un po' di letame".
Eppure i consumi di carni sono aumentati in Italia.
"Certo. In Italia i consumi di carne sono aumentati molto negli ultimi 60 anni. Se nel 1958 un italiano consumava mediamente poco più di 11 chili di carne bovina, sei e spiccioli di suina e circa tre di pollame, oggi si sfiorano rispettivamente i 25, i 40 e i 20. Ma questo è dovuto in buona parte alle importazioni. Un secolo fa avevate anche più bovini di adesso, ma eravate poco più della metà. Oggi siete quasi tutti cittadini che amano la ciccia, ma i capi sono addirittura diminuiti. Quindi, giocoforza, dovete importare. Solo che, purtroppo, potete importare le carni, ma non il letame..."
No, direi che treni merci colmi di letame abbiano poco senso. Ma tornando alla vocazione geografica dei tempi che furono, anche un secolo fa però la Pianura padana era comunque più ricca di bovini del resto d'Italia.
"Certo, la disponibilità di acqua era fondamentale anche allora. Quindi le aree a cavallo del Po sono da sempre quelle più favorite. Non a caso, lì di letame non c'è mai carenza. Ma se oggi prende un compasso, lo punta su Cremona e disegna una circonferenza dal raggio di 60 chilometri, credo che includa l'ampia maggioranza dei bovini e dei suini italiani".
E le ragioni di tale concentrazione zootecnica quali sarebbero secondo Lei?
"Specializzazione. Con l'abbandono delle campagne ogni area geografica si è indirizzata sempre più a produrre ciò che gli veniva meglio. E come detto, le aree a cavallo di Lombardia ed Emilia sono senz'altro le più avvantaggiate per allevare animali".
Quindi anche Lei oggi è molto disomogeneo come distribuzione geografica.
"Ovvio. Per esempio, ci sono molte zone cerealicole del Centro e del Sud che di capi d'allevamento ne contano davvero pochi. Lì letamare i campi è quasi impossibile. Quindi mi sostituirono con i fertilizzanti minerali che nutrono sì le colture, ma non reintegrano il suolo quanto a sostanza organica, la quale, come si sa, sta calando sempre più. E mica si può sempre fare sovesci di leguminose, spesso a causa di esigenze economiche di breve periodo. Sono finiti i tempi in cui ci si poteva permettere di lasciare incolta una parte dell'azienda agricola per ingrassare il terreno".
Lei però resta in ogni caso uno dei fattori produttivi più ambiti dall'agricoltura biologica e biodinamica, le quali si sono imposte proibizioni precise nei confronti dei fertilizzanti inorganici. Cosa ne pensa?
"Ma fanno benissimo, ovviamente. A patto di avere la disponibilità vicino casa, altrimenti come si fa? Si rende conto che io sono prodotto, per così dire, per lo più in certe aree geografiche, mentre gli agricoltori biologici e biodinamici sono sparsi in tutta Italia, con addirittura una maggiore concentrazione al Sud, dove di capi di allevamento sono molti meno che al Nord? Se tutta l'agricoltura dovesse diventare bio, o peggio biodinamica, a parità di impegno e di produzioni avreste bisogno di salire di almeno un ordine di grandezza rispetto all'attuale patrimonio bovino italiano solo per star dietro ai fabbisogni di letame dei campi. Cioè fare quello che l'intero mondo ambientalista vede come fumo negli occhi per via dell'inquinamento, dell'effetto serra, dei nitrati… bla… bla…"
La vedo ironico su questo punto.
"Ma sì, quando gli ambientalisti parlano bisogna sempre tagliare via un pezzo abbondante di ciò che dicono. È loro prassi gonfiare i fenomeni, pur esistenti, al fine di attrarre maggiori attenzioni. Pensi che qualche anno fa Confagricoltura di Piacenza sviluppò uno studio comparativo dei livelli di nitrati nelle acque e di capi bovini per le diverse municipalità. Pensi un po' come è finita?"
Come è finita?
"È finita che c'erano meno nitrati nei comuni con più capi bovini e ce n'erano di più in quelli dove la densità zootecnica era inferiore. Cioè il contrario di quello che ci si sarebbe aspettati. Però, sorprese a parte, resta il fatto che l'aumento di richiesta di letame, quindi di capi bovini, cozza con le pretese di maggiore ecosostenibilità di queste due pratiche agricole, specialmente la biodinamica".
Cioè quella agricoltura che ricorda molto appunto quella dei nostri bisnonni del 1921.
"Esatto. Quando appunto eravate quasi tutti contadini con un pezzo di terra da coltivare e qualche bestia nella stalla, allevata facilmente grazie anche al fatto che c'era il doppio delle terre coltivabili di oggi. A provarci adesso… auguri…"
Non me lo dica. Ma quindi Lei come vede il Suo futuro?
"Benissimo. Che abbiate tanti bovini o pochi, io continuerò ad essere prodotto. Nemmeno se dovesse diventare vegana l'Italia intera io sparirei dalla circolazione. Se lo immagina i vegani che estinguono più di cinque milioni di bovini e ancor di più di suini?"
No. Magari li libererebbero nell'ambiente.
"Sì, come le nutrie. Ma pensi solo cosa accadrebbe intorno alle città! Già oggi si lamentano i cittadini per le incursioni dei cinghiali, figuriamo se assediati da eserciti di vacche e maiali! No, mi dia retta: lo stile alimentare vegano non prenderà mai più di qualche punto percentuale sul totale. E i vegetariani mangiano uova e bevono latte: quindi per lo meno pollame e vacche da latte sopravviverebbero benissimo. E io con loro".
E comunque, anche senza andare nelle città, pure in campagna i cittadini riescono a rompere le uova nel paniere, tanto per restare in tema di cibi di origine animale.
"Non me lo dica. In città si stressano, trovano una casetta in campagna, magari da ristrutturare, e ci si trasferiscono con tutta la famiglia. Oppure la comprano per passarci le vacanze in montagna. Peccato che i paesini di provincia si siano anch'essi espansi fino a inglobare le stalle. Quindi giù mosche e puzze. E così gli ex-cittadini, ai quali andrebbero ricordate le polveri sottili alle quali si sono appena sottratti, partono in tromba e vanno dai vigili, dal sindaco, fanno esposti e sobillano comitati. Perché la natura è bella eh? Ma se la tua ricerca di orizzonti bucolici si arena in una stalla, mica è una polpetta facile da digerire".
E mica ci sono solo le stalle…
"No. Si figuri che in Valtellina sono state mosse proteste perfino contro le vacche al pascolo perché hanno i campanacci e disturberebbero la quiete e i pisolini dei cittadini in vacanza. E quindi, via dai Carabinieri… Non so se ridere o se piangere".
Già. Vogliono bistecche, salumi, ma anche yogurt magro, latte, burro, formaggette aromatiche o banale stracchino. Ma se poi toccano con mano le realtà zootecniche, apriti cielo. Poi, magari, le stesse persone si adirano nell'apprendere che stanno aumentando sempre più le importazioni dall'estero. Perché, loro, vogliono mangiare italiano. Mica le "schifezze" fatte dagli stranieri, come hanno sentito dire in tv o letto sul web.
In attesa quindi che i succitati cittadini facciano pace con se stessi, magari decidendo di restare nelle loro città anziché andare a rompere gli zebedei agli agricoltori in campagna, ci congediamo dal letame, augurandogli lunga vita. Anche se siamo confidenti che non ne avrà alcun bisogno.
Il letame in agricoltura è come un diamante in gioielleria: per sempre. E mentre, si sa, dai diamanti non può nascere alcunché, dal letame possono nascere i fiori.