Tutti gli esseri viventi hanno il Dna, cioè quella molecola importantissima che trasporta le istruzioni necessarie per il funzionamento cellulare e l'eredità genetica. Una recente scoperta attribuisce al Dna una nuova funzione, legata in modo particolare alla coesistenza delle specie vegetali in natura. Questa scoperta ha una serie di riscontri pratici in agricoltura.

 

Sperando di semplificare: quando parti di una pianta cadono al suolo e si decompongono, rilasciano nel terreno il Dna di quella specie. Questo, quando ce n'è tanto, esercita un effetto inibitore specie specifico sugli individui della stessa specie. In poche parole, piante della stessa specie faticano a crescere in quel terreno. È la teoria dell'autotossicità per cui il self Dna extracellulare frammentato (cioè il Dna proveniente da conspecifici) produce effetti inibitori specie specifici nelle piante.

 

Si tratta di un meccanismo alla base della stanchezza del terreno, quel fenomeno negativo per l'agricoltura, quasi invisibile ma tra i più importanti perché capace di danneggiare fortemente lo sviluppo e la redditività di una coltura.

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L'autotossicità e i suoi riscontri negativi, quindi, sono particolarmente evidenti quando una stessa coltura viene coltivata per lungo tempo sullo stesso suolo, cioè quando si fa una monocoltura. C'è un forte accumulo del Dna conspecifico (della stessa specie), squilibrio del sistema suolo pianta e di conseguenza declino della produzione; le piante sono più deboli e più suscettibili alle malattie.

 

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(Fonte: Stefano Mazzoleni)

 

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(Fonte: Stefano Mazzoleni)

 

L'effetto inibitorio del self Dna è stato verificato anche su altri organismi come batteri, funghi, protozoi, alghe e insetti suggerendo che è un fenomeno biologico generale, molto probabilmente valido anche per noi esseri umani.

 

E si sa, dalle nuove scoperte arrivano anche nuove soluzioni pratiche: applicando la teoria del self Dna in agricoltura al mondo del biocontrollo, si può usare il Dna di una specie parassita o patogena per inibire il suo stesso sviluppo.

 

Per approfondire la teoria del self Dna e i suoi riscontri pratici abbiamo intervistato il professor Stefano Mazzoleni dell'Università degli Studi di Napoli Federico II che da più di 10 anni studia il meccanismo alla base della stanchezza del terreno. Questa intervista è stata editata e riassunta in alcune parti per una maggiore chiarezza, avendo cura di non alterare i concetti espressi dal professore. Oltre alle nostre domande sono presenti nell'articolo le domande di alcuni lettori che ci sono arrivate tramite i nostri canali social.

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Come funziona la stanchezza del terreno

È conosciuto in ecologia come plant soil negative feedback ovvero interazione negativa pianta suolo che è un fenomeno specie specifico in cui compaiono degli effetti negativi sulla performance di una specie in un terreno, che non sono presenti su altre specie filogeneticamente distanti (che non sono della stessa specie).

 

In agricoltura, invece, questo fenomeno è chiamato stanchezza del terreno. Per studiarlo, il professor Mazzoleni insieme al suo team, ha cominciato dalla decomposizione della sostanza organica: provando a far germinare semi di una pianta sia su lettiere fresche che decomposte, sia eterospecifiche (cioè di altre specie) che conspecifiche (della stessa specie), è risultato che tra le lettiere eterospecifiche quella fresca aveva un effetto inibitore perché non decomposta e quella decomposta aveva un effetto fertilizzante, mentre tra le lettiere conspecifiche quella decomposta è risultata inibitrice e quella fresca no.

 

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(Fonte: Stefano Mazzoleni)

 

Inoltre, hanno dimostrato che l'applicazione di carbone attivo, noto per assorbire selettivamente i composti organici allelopatici, rimuove la fitotossicità del materiale fresco eterospecifico ma non rimuove l'autotossicità del materiale decomposto conspecifico. Così hanno ipotizzato che il composto alla base dell'autotosiccità doveva essere resistente alla decomposizione, di grandi dimensioni, solubile in acqua (visto che nelle risaie ricoperte d'acqua il fenomeno della stanchezza non c'è) e specie specifico.

 

Quale molecola possiede tutte queste caratteristiche? Il Dna, e in questo caso particolare il Dna conspecifico detto anche Dna self. Quindi, quando c'è stanchezza del terreno si crea un ciclo di accumulo del Dna della pianta coltivata nel terreno (il Dna rilasciato dalla lettiera che si sta decomponendo) che ha effetto inibitore.

 
Come mai la stanchezza del terreno è un fenomeno così complesso e per tanto tempo è stato difficile attribuirgli una causa?

"In realtà il fenomeno della stanchezza non è così complesso: se si coltiva sempre la stessa specie per cicli ripetuti, sempre sullo stesso suolo, compare la stanchezza cioè un declino produttivo in quel suolo che viene risolto sostituendo la specie. Quindi, in fondo, il fenomeno è semplice da descrivere ed è stato osservato fin dai tempi antichi", spiega il professor Mazzoleni.

 

Nei terreni stanchi si possono osservare declino della produzione, fallanze e assenza di germinazione, difficoltà di crescita delle piante e aumento dell'attacco di parassiti e patogeni.

 

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(Fonte: Stefano Mazzoleni)

 

"Tradizionalmente - continua il professore - quindi, dove c'era il fenomeno di stanchezza si risolveva con la rotazione. Con la comparsa dell'agricoltura intensiva in cui si evitano le rotazioni, è stata forzata la mano. Se comparivano attacchi patogeni si aumentava il carico di agrofarmaci, se c'era declino di produzione si aumentava il carico di fertilizzanti, ecc. Invece, sul fronte dell'interpretazione del fenomeno e del meccanismo alla base si è rimasti sempre un po' sul vago".

 

Le prime spiegazioni associavano il problema o alla mancanza e all'esaurimento dei nutrienti nel terreno, ma poi con la fertilizzazione questo non si risolveva, o alla presenza di patogeni specifici per quella coltura, ma il fenomeno si presentava anche in assenza del patogeno.

 

"L'intuizione nostra alla base della scoperta del self Dna inibitore è stata fare da ponte tra il plant soil negative feedback in ecologia e la soil sickness in agricoltura e capire che erano sostanzialmente la stessa cosa. Anche in ecologia ci sono stati tentativi di spiegare il negative feedback in termini nutrizionali e di patogeni, ma alla fine la teoria che va per la maggiore, in contrapposizione alla nostra, è quella che attribuisce la causa del fenomeno al microbioma del suolo. Si osserva, cioè, un effetto specie specifico e lo si considera associato alla specializzazione di un microbioma ostile rispetto a quella specie, quello stesso microbioma invece non è ostile per altre specie.

 

Questa spiegazione per me si sposta troppo in un campo fumoso perché quando facciamo riferimento al microbioma parliamo di decine di miglia di specie; inoltre anche se ci sono prove che dimostrano che spostando il microbioma trasferisci anche il negative feedblack, così facendo si può spostare anche il self Dna della specie, quindi non è una prova che esclude la nostra spiegazione.

 

È come se si accettasse che si tratta di un fenomeno inspiegabile: chissà quali sono i batteri che fanno male ad una specie solamente, non si sa perché e non si sa quali sono. Quando si cercano o si trovano questi batteri patogeni ritenuti quindi come presunta causa della stanchezza non si tiene conto del fatto che gli stessi microrganismi sono presenti anche nei terreni sani dove si comportano come saprofiti.

 

Noi non neghiamo la presenza o l'effetto dei patogeni, ma stiamo aggiungendo un tassello alla storia, che precede l'attacco dei patogeni. La pianta viene indebolita dal suo self Dna e nel momento in cui è indebolita, un fungo o un batterio che vivevano in quel suolo da saprofiti, trovando le radici necrotiche della pianta, trovano un substrato adatto alla colonizzazione.

 

Quindi, nei fatti, stiamo dando una spiegazione meccanicistica alla comparsa e all'attacco dei patogeni che sono però una conseguenza della stanchezza e non la causa. E alla fine la storia risulta complessa ma non nell'effetto. L'effetto in realtà è una proprietà emergente molto semplice: una specie soffre i propri residui e questo attiva una cascata trofica di reazioni che influenza il microbioma e i patogeni e rende tutta la dinamica complessa, ma la storia rimane semplice".

 
Che esperimenti avete fatto per dimostrare questa ipotesi e che piante avete usato?

"La scoperta è stata fatta su oltre 30 specie di ecosistemi mediterranei naturali per poi verificarla anche con test in vitro, molto semplici, su piante coltivate come rucola, lattuga, basilico, pomodoro, grano, fagiolo, ecc. Abbiamo preso i semi di tutte queste piante e li abbiamo messi in una piastra petri con il loro Dna estratto e abbiamo osservato l'effetto inibitore che ha creato necrosi alle radici quando queste hanno cominciato a germinare. Al contrario gli stessi semi messi in piastre petri con Dna di altre specie crescono benissimo.

 

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(Fonte: Stefano Mazzoleni)

 

In campo la stanchezza diventa un fenomeno più complesso. Dipende per esempio dal tipo di suolo, se è sabbioso o argilloso, e dal tipo di regime di irrigazione. Queste caratteristiche possono far variare le tempistiche nella comparsa della stanchezza: ho notato che nei suoli argillosi compare più lentamente perché questi hanno capacità di adsorbimento maggiore ma una volta che si è instaurata diventa più difficile da eliminare rispetto ad un suolo sabbioso dove il Dna viene lisciviato più facilmente con l'acqua.

 

I lavori di approfondimento biochimico e biomolecolare, per studiare il funzionamento dell'inibizione sono stati fatti su vari organismi modello. Per quanto riguarda le piante, ovviamente su Arabidopsis thaliana, per gli organismi animali sul nematode Caenorhabditis elegans e sull'insetto Drosophila melanogaster, usati come standard negli studi di genetica, oltre che su Saccharomyces cerevisiae, come unicellulare eucariote di riferimento.

 

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Ritardo dello sviluppo larvale in Drosophila melanogaster mediante autoalimentazione con self Dna

(Fonte: Biology)

 
Quindi come si può gestire il problema della stanchezza del terreno, conoscendone la causa, in agricoltura?

Bisogna aumentare la biodiversità, spiega Stefano Mazzoleni: "Va eliminato l'accumulo di residui organici della stessa specie ed eventualmente bisogna fare rotazione di residui tra campi adiacenti con colture differenti. Oppure mettere in atto le tecniche di intercropping - policolture come nel caso dell'agricoltura rigenerativa e dell'agroforestrye di inerbimento del suolo. Per quanto riguarda la concimazione, si possono usare concimi organici ad alta eterospecificità, come per esempio il compost tea (concime liquido che deriva dall'infusione del compost in acqua)".

 
Domanda da un lettore: "Quindi l'interramento ripetuto delle cover crop provoca bio accumulo del loro Dna e successiva stanchezza del terreno per le stesse specie?"

Di solito le cover crop sono dei miscugli ed essendo questi caratterizzati da biodiversità, il fenomeno non si manifesta. "Inoltre - aggiunge il professor Mazzoleni - generalmente queste colture vengono messe tra le file e in questi casi avviene uno scambio a livello di apparato radicale tra le cover crop e la coltura sul filare, che è monospecifico, creando una forma di sinergia spazializzata che fa bene".

 
Domanda da un lettore: "Come si spiega l'esistenza delle foreste primarie?"

"Le foreste primarie sono foreste che non hanno subito l'impatto umano, per esempio non sono state tagliate o bruciate e si mantengono così da migliaia di anni. Se prendiamo ad esempio le foreste pluviali, queste non sono monospecifiche, sono ad alta biodiversità. […] In questi casi c'è facilitazione alla riproduzione di tipo eterospecifica piuttosto che conspecifica. Quindi le foreste primarie non hanno nessun elemento di contraddizione con il discorso del self Dna.

 

Se però si prende in considerazione il gradiente latitudinale, l'esempio delle foreste boreali, invece, potrebbe sembrare un elemento di contraddizione. Tutte le foreste primarie di conifere della Siberia, del Canada, della Norvegia, sono monospecifiche e in questo caso la domanda potrebbe essere giustificata. In realtà, siccome siamo in ambienti molto freddi e il processo di decomposizione è molto rallentato, non c'è rilascio e accumulo di Dna monospecifico, o meglio c'è ma è molto lento, il che permette la dominanza della conifera. Ciò non toglie che se si osserva la foresta boreale su cicli di centinaia o migliaia di anni, si osserva stanchezza. In Alaska, in zone dove non c'è traccia umana, si nota una riduzione di vitalità delle foreste molto vecchie che diventano meno verdi, cioè meno attive fotosinteticamente. Queste vengono ringiovanite dagli incendi molto rari, per esempio quelli causati dai fulmini; in questi casi c'è un reset del sistema, viene bruciata la sostanza organica che molto lentamente aveva accumulato il Dna delle conifere e ad un certo punto riparte tutto e la foresta che cresce sulle ceneri in cui il Dna è stato rimosso è di nuovo verde e vitale.

 

Se invece ci si sposta in ambienti a latitudini più basse, con climi più favorevoli alle piante, in questi ambienti è anche più favorevole la decomposizione e il ciclo della sostanza organica è più rapido. Qui si accelera la comparsa del negative feedback e il massimo si raggiunge in foreste tropicali dove la monospecificità è impossibile, se non in presenza di forte dilavamento come nel caso delle mangrovie lungo i corsi dei fiumi e degli ambienti costieri".

 

Applicare il principio del self Dna al controllo dei patogeni in campo

Visto che negli anni si sono accumulate evidenze che questo principio è alla base di un fenomeno generale biologico e può essere applicato a qualsiasi specie, non solo vegetale ma anche animale, fungina e batterica, è stata espressa la possibilità di utilizzare il Dna totale frammentato di una specie per il controllo biologico della stessa specie.

 

In agricoltura questo si traduce in un nuovo potenziale mezzo di controllo biologico estremamente naturale e selettivo. Viene estratto il Dna di una specie bersaglio (ad esempio dal micelio fungino o da cellule microbiche) e lo si utilizza contro la stessa specie per inibirne lo sviluppo.

 

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Rappresentazione concettuale dell'uso del self Dna per il controllo biologico ed esempi di potenziali applicazioni pratiche

(Fonte: Phytochemistry Reviews)

 
Come si può produrre e come si può rilasciare in campo il Dna?

"Per le prove sperimentali di laboratorio, il Dna viene estratto dalla specie patogena che si vuole controllare attraverso kit di estrazione standard e tecniche di amplificazione che non devono essere mirate a specifici frammenti o primer specifici, ma devono operare in modo generico tale da amplificare in maniera randomizzata tutto il Dna", spiega Mazzoleni.

 

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Confronto schematico tra la ricerca tradizionale sui prodotti farmaceutici e il nuovo metodo di sviluppo dei farmaci basato sull'ipotesi del controllo biologico delle specie bersaglio mediante Dna conspecifico

(Fonte: Phytochemistry Reviews)

 

Per le prove in campo abbiamo trovato, invece, una soluzione innovativa che consiste nel far crescere popolazioni microbiche tipo cianobatteri in presenza del Dna della specie che ci interessa controllare. Per esempio, abbiamo messo a punto una tecnica con la spirulina: mettendola a crescere su substrato arricchito di materiale in decomposizione della specie target otteniamo degli strain di spirulina arricchiti della capacità di amplificare l'effetto inibitore del self Dna.

 

In questo caso, il prodotto di biocontrollo diventa la spirulina che però ha un effetto stimolante sul crop, a prescindere dal trattamento del self Dna, e di controllo sul patogeno. Il meccanismo con cui funziona questa propagazione dell'effetto inibitore è ad oggi oggetto di ricerca e di brevetto".

 

Il primo studio di questo tipo è stato fatto su lattuga comune coltivata in serra, infestata dal patogeno fungino Fusarium oxysporum lactucae. Sono stati fatti 3 diversi trattamenti: il primo applicando del compost tea, il secondo applicando Arthrospira platensis (spirulina) come biofertilizzante e prodotto biostimolante e l'ultimo sempre con la stessa spirulina, ma precedentemente esposta ad un assorbimento naturale del Dna del Fusarium target, per testare l'idea dell'inibizione del self Dna.

 

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(Fonte: Stefano Mazzoleni)

 

Negli appezzamenti di controllo circa il 20% delle piante di lattuga è morto e un numero simile di piante ha riportato una crescita stentata. Invece, tutti i trattamenti di fertilizzazione, e in particolare quello con l'inibizione del self Dna del patogeno, hanno ridotto l'insorgenza della malattia fungina in termini di diminuzione del numero di piante, sia morte che rachitiche. Inoltre, il peso medio delle singole lattughe è aumentato con tutti i trattamenti di fertilizzazione e, tra questi, quello con il self Dna ha ottenuto ancora una volta risultati migliori.

 

In questo studio, quindi, è evidente come la biostimolazione generale mediante fertilizzazione organica rafforza le piante trattate, ma i benefici migliori si osservano con l'effetto combinato tra la biostimolazione vegetale e l'inibizione del self Dna del patogeno.

 
Osservazione da parte di un lettore: "Curare o prevenire i patogeni con il loro Dna non mi sembra una grande idea soprattutto per i rischi di mutazione dello stesso e di generazione di resistenze"

Il professor Mazzoleni risponde: "Se parliamo di antibiotico resistenza questa è una cosa molto precisa, cioè è l'uso di prodotti che sono specifici contro un gene. La nostra sostanza, invece, è il Dna, ma non un gene specifico di una specie. No, il genoma intero frammentato in modo casuale come nei processi di decomposizione naturale. Quindi, nei fatti, la paura che possa comparire un'antibiotico resistenza è un uso errato delle parole perché noi non stiamo parlando di un effetto specifico ma di un effetto generalizzato di self inibition al proprio genoma quindi per definizione non ci può essere insorgenza di resistenza".

 

Per approfondire questo argomento, il professor Mazzoleni consiglia la lettura di uno studio del 2014: "New perspectives on the use of nucleic acids in pharmacological applications: inhibitory action of extracellular self-DNA in biological systems".

 

Visto che l'argomento del self Dna è complesso ma anche molto stimolante, invitiamo i lettori che hanno dei dubbi a contattare la redazione di AgroNotizie® o il professor Stefano Mazzoleni, per chiedere ulteriori spiegazioni e soprattutto per raccontare casi, se ne conoscete, in cui sembra che il principio dell'inibizione del self Dna non torni. A detta del professore: "Tutte le volte che nel nostro gruppo di lavoro sono usciti fuori casi che sembravano in contraddizione con la regola, in realtà c'è stato poi un rafforzamento della teoria. Questo potrebbe essere un modo divertente per sollevare un dibattito".