Spesso sui giornali si leggono titoli allarmanti, i quali iniziano più o meno così: "Lo dice la scienza". Due punti, poi via con la notizia choc del giorno. Di fatto, la scienza è muta. Non dice mai niente, Lei.
Sono semmai gli scienziati che parlano, per giunta non sempre in modo inoppugnabile, onesto e trasparente. Questi passano poi il testimone ai giornalisti, i quali ci mettono pure del loro e se la ricerca scientifica diceva "dieci", loro fanno pensare che abbia detto "cento". Se poi si incontrano uno pseudo scienziato in vena di fama e di visibilità con un giornalista in caccia di click, l'affare è presto fatto: se la ricerca poteva dire uno, finisce col dire cento, diventando infine mille sulle pagine dei giornali.

Logico che poi la gente comune, a digiuno di competenze scientifiche di settore, legga quegli articoli e si spaventi, sebbene all'analisi dei fatti vi sia davvero ben poco di cui preoccuparsi. Spesso le ricerche pubblicate sono infatti svolte su cavie di laboratorio, oppure su colture cellulari allevate "in vitro", dando responsi che raramente hanno qualche attinenza con quanto succede nel mondo reale. Ciò perché manca il fattore esposizione, cioè quello che completa l'assunto di Paracelso, tutt'oggi mai smentito, secondo il quale è la dose che fa il veleno. Ecco, quasi mai le dosi applicate in laboratorio giacciono vicine a quelle cui la popolazione è mediamente esposta. Anzi, nella quasi totalità dei casi si parla di dosi migliaia o milioni di volte superiori a quelle che un essere umano incontrerà in tutta la sua vita. Ecco perché non bisognerebbe mai spaventarsi leggendo certi articoli, perché quasi sistematicamente descrivono scenari distanti anni luce da quelli reali.

In questa prima puntata della presente serie di articoli - La tossicologia spiegata semplice – si cercherà di fornire qualche ragguaglio elementare di tossicologia, approfondendo poi nelle puntate successive i vari temi che via via nel tempo andranno presentandosi. Perché la stampa allarmista è molto prolifica in tal senso, inclusa quella scientifica, cioè quella dalla quale tutto prende origine. Quindi gli argomenti, si teme, non mancheranno.
 

Acuto e cronico

Innanzitutto, ci sono due modi attraverso i quali una sostanza può danneggiare un organismo, finanche alla morte. Il primo è quello cosiddetto acuto: basta una singola dose assunta in un'unica soluzione e sei spacciato. Quella dose ti fa male, o addirittura ti uccide, pure velocemente. L'altro, quello cronico, è invece più lento e subdolo, perché richiede una somministrazione regolare e continuata nel tempo, a dosi sufficienti per logorare qualche meccanismo fisiologico e creare un danno di lungo termine. Raramente tali effetti provocano la morte, per lo meno diretta. Il più delle volte i danni si manifestano attraverso patologie di vario genere, anche tumorali.

In questa prima puntata si approfondiranno le basi della tossicità acuta, mentre nella seguente si descriveranno quelle su cui poggiano le valutazioni degli effetti di tipo cronico.
 

Una dose è sufficiente

Valutare la tossicità acuta è molto più facile rispetto alla valutazione della tossicità su base cronica, ma in entrambi i casi servono dei parametri convenzionali, cioè universalmente condivisi e usati, in modo da parlare tutti lo stesso linguaggio.

Per esprimere la tossicità acuta di una molecola, per esempio, si assume il valore in milligrammi per chilo di peso corporeo al quale corrisponde una mortalità del 50% fra le cavie soggette a test. È la cosiddetta LD50, ovvero la dose letale per il 50% degli individui. Può essere orale, con somministrazione attraverso la dieta, oppure dermale, ponendo la sostanza indagata a contatto con la pelle. Oppure si utilizza la LC50, ovvero la concentrazione letale, parametro necessario quando si stia valutando per esempio la tossicità per inalazione o verso organismi acquatici. In tal caso si adotta il valore di concentrazione al quale la molecola è stata somministrata o con l'aria, o con l'acqua in cui nuotano degli organismi acquatici come pesci, micro crostacei acquatici, oppure alghe.

Per individuare questi valori si procede per approssimazioni successive. Le cavie vengono suddivise in più gruppi ai quali la sostanza viene somministrata a dosi crescenti, per esempio 1, 10, 50, 100, 200 e 500 mg/kg di peso corporeo. Tale range può essere più o meno mirato grazie alla conoscenza delle tossicità acute di molecole simili, già studiate in passato.
Se a 1 mg/kg la mortalità è nulla, a 10 mg/kg è del 15%, a 50 mg/kg è del 34% e a 100 mg/kg è del 77%, la prova viene ripetuta restringendo il range, perché si è compreso che la LD50 dovrà ricadere più o meno fra i 50 e i 100 mg/kg. Ovviamente, non è possibile andare avanti a sacrificare cavie fino a che non si azzecca una dose perfettamente posizionata sul 50% di mortalità, quindi si effettuano delle interpolazioni. Se per esempio a 70 mg/kg la mortalità è del 47% e a 80 mg/kg è del 56%, si tira una riga fra le due dosi e si stabilisce che la LD50 "potrebbe" essere all'incirca 73 mg/kg. Tale valore fungerà quindi da valore di riferimento per quella molecola sebbene alcuna cavia sia mai stata esposta ad essa.

Valutare gli effetti tossici su un organismo non è però semplice e ripetibile come pesare un chilo di farina. In tal caso, se si hanno bilance diverse, ma ben tarate, tutte loro forniranno responsi che differiranno di pochi punti millesimali. Quando si deve invece lavorare in campo tossicologico le cose si complicano molto.
Ogni test porta con sé una certa variabilità di condizioni e di criteri di valutazione. Un ratto agonizzante ma ancora vivo al termine della prova, come lo devo considerare? Magari muore il giorno dopo: lo conteggio oppure no? Ecco perché se si eseguono cento diversi test per valutare la LD50 o la LC50 di una sostanza si ottengono altrettanti valori, talvolta anche differenti fra loro in modo significativo.

Per l'alletrina, insetticida piretroide, si possono trovare LD50 che partono da un minimo di 685 fino a un massimo di 1.100 mg/kg. Ancor peggio per la permetrina, con LD50 che in bibliografia vanno da un minimo di 430 a un massimo di 4mila mg/kg. Come mai? Bisognerebbe andare a leggersi ogni singolo test, per capire come è stato svolto, su che popolazione, in che condizioni di stabulazione degli animali, di somministrazione eccetera.

Stabilire quindi qual è il valore di riferimento non è affatto semplice. Saggia procedura suggerisce di andare a valutare la fonte di ogni singolo dato disponibile in bibliografia, raggruppando tutte le LD50 trovate e valutando quale fra esse appare il valore più sensato. Se su 12 dati di origine diversa se ne trovano nove che ricadono fra i 200 e i 250 mg/kg, si assumerà come unico dato di riferimento quello che più o meno rappresenta la media di questi valori più frequenti. Questo non vuol dire che quel valore di LD50 sia quello "vero" e tutti gli altri siano "falsi", bensì che quel dato è il più "rappresentativo" fra quelli considerati. Se si deve infatti creare una classifica dei prodotti in base alla tossicità acuta, tale sistema permette di ottenere una lista a tossicità crescente che appaia per lo meno omogena nel metodo e sensata nei risultati.

Ed è proprio il buon senso che deve guidare anche ogni valutazione di tipo ecotossicologico, cioè quella disciplina che poi valuta i rischi potenziali per una popolazione, animale, umana o vegetale, in base al raffronto tra i valori di esposizione a una sostanza e i dati di tossicità ottenuti in laboratorio. Se l'esposizione è molto al di sotto di questi parametri, opportunamente sforbiciati tramite severi coefficienti di riduzione, il rischio non viene considerato significativo. Se li superano, invece, vanno operate opportune valutazioni suppletive per stimare con attenzione i reali livelli di rischio.

Ad esempio, se si cerca di valutare il rischio per una popolazione acquatica dovuto all'uso di un fungicida, si andrà prima di tutto a cercare il parametro più penalizzante in termini tossicologici (worst case), quello cioè che ha causato mortalità ai valori più bassi, quindi a carico della specie più sensibile. Dopodiché si può per esempio dividere per cento tale valore e poi confrontarlo con le concentrazioni oggettivamente rinvenute in quelle acque. Se una molecola ha mostrato una LC50 su Daphnia magna, un micro crostaceo acquatico, pari a 100 µg/L (microgrammi per litro = milionesimi di grammo), si fisserà prudenzialmente la soglia di sicurezza a 1 µg/L. Se la sostanza attiva "incriminata" resta sempre al di sotto di quella soglia di concentrazione acquatica, il rischio viene considerato trascurabile se non nullo. Per esempio, a 5 nanogrammi per litro (ng/L) si può perfino assumere che quella sostanza sia del tutto innocua per la Daphnia, in quanto tali concentrazioni stallano 20mila volte al di sotto della LC50 e 200 volte al di sotto della soglia di sicurezza.

Se quella sostanza mostrasse invece valori superiori, anche sporadicamente, questi andrebbero valutati anche in ottica temporale (tossicità cronica), al fine di comprendere se tali sforamenti del limite che ci si è posti possano causare un danno o meno a quella popolazione di Dafnie sul lungo periodo. Il tutto, considerando anche la capacità di recupero e di ribilanciamento dei vari ecosistemi, perché uno stagno non è immutabile nel tempo e una perturbazione momentanea può significare nulla in termini di salute complessiva delle sue acque nel lungo periodo.

Se al posto della Daphnia mettiamo l'uomo, il concetto cambia poco: si stima l'esposizione, si valutano i parametri tossicologici, ovviamente su cavie, poi si producono le specifiche valutazioni dei livelli di rischio. E sotto certe soglie di esposizione, il rischio tende asintoticamente a zero, con buona pace degli pseudo scienziati e dei giornalisti con la passione per l'allarmismo sensazionalista.
 

Concludendo

In conclusione, il consiglio che si può dare a chi legge è di non farsi disorientare da dati differenti fra loro, né di farsi impressionare da test di laboratorio o etichette ministeriali che riportino frasi di rischio inquietanti. Se quel prodotto, contenuto nel suo flacone, può essere tossico se assunto tal quale, esso può risultare indifferente sulla salute umana una volta diluito nella botte dell'atomizzatore e spruzzato in un vigneto. A meno ovviamente di ritrovarsi ripetutamente nel bel mezzo dell'aerosol stesso, per anni. Perché questi prodotti sono concepiti per finire sulle piante coltivate, non addosso alla gente, cioè uno dei motivi per cui in Italia sono stati aboliti i trattamenti con aerei ed elicotteri, a differenza di molti Paesi nord e sudamericani ove sono ancora praticati.
Qui però si entra in un altro argomento, anche più spinoso della tossicologia, ovvero le buone pratiche di campagna e la difficile coesistenza fra campi coltivati e abitazioni civili. Ricordandosi però che mica sempre hanno ragione gli abitanti di queste ultime.
"La tossicologia spiegata semplice" è la serie di articoli con cui AgroNotizie intende fornire ai propri lettori una chiave di lettura delle notizie allarmanti sul mondo agricolo in generale e su quello fitoiatrico in particolare.

Perché la tossicologia, in fondo, è più semplice da comprendere di quanto sembri.