Negli ultimi due mesi il Governo ha annunciato diversi provvedimenti a vantaggio - dicono - del comparto agricolo. Come al solito, gli annunci ufficiali vengono ripubblicati con commenti banali dai soliti blogger, influencer e siti generalisti, salutati trionfalisticamente dalle categorie direttamente beneficiate - non sempre quella degli agricoltori - e duramente criticati dalle opposizioni, dagli intellettuali dei talk show serali e dalle ormai consuete masse di "tuttologhi" delle reti sociali.

 

In questo articolo proponiamo ai nostri lettori un esercizio di verifica, dal punto di vista puramente tecnico scientifico, dei vantaggi, svantaggi e potenziali criticità delle nuove disposizioni legislative che dovrebbero entrare in vigore nei prossimi mesi.

 

Il Decreto Pratiche Ecologiche

Lo scorso 16 marzo il ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin annunciava la firma del Decreto Pratiche Ecologiche. A due mesi di distanza, il testo sembra ancora insabbiato alla Corte dei Conti e non è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. In sostanza, secondo il comunicato ufficiale del Ministero per l'Ambiente e la Sicurezza Energetica (Mase), "Il provvedimento servirà a raggiungere l'obiettivo del PNRR per il quale sono stanziati 193 milioni. Le risorse sono indirizzate per il 40% al sud, con 77,2 milioni destinate alle Regioni del Mezzogiorno, e la restante parte nel centro nord.

Le categorie di intervento oggetto di incentivo sono di tre tipologie: le 'Pratiche ecologiche' nei campi e lo sviluppo di poli consortili per lo sfruttamento del digestato, la sostituzione di trattori obsoleti con quelli alimentati a biometano e interventi per l'efficienza degli impianti già esistenti per la produzione di biogas. La più ampia fetta di risorse, 124 milioni di euro, è diretta a interventi per migliorare l'efficienza degli impianti a biogas esistenti e non convertibili a biometano. Con 54 milioni di euro sono invece finanziati interventi come macchinari per la distribuzione efficiente del concime organico. Le stesse risorse potranno servire per la creazione di poli consortili per il trattamento centralizzato per lo sfruttamento del digestato. Quindici, invece, i milioni previsti per sostituire vecchi trattori con quelli più efficienti, dotati di strumenti per l'agricoltura di precisione e alimentati esclusivamente a biometano: uno specifico target PNRR individua a giugno 2026 la messa in circolazione di almeno trecento trattori con le nuove caratteristiche".

 

Al di là degli interessanti incentivi previsti, che però potrebbero subìre le sforbiciate della Corte dei Conti, l'aspetto più importante da segnalare è un cambio di passo rispetto al precedente lustro di atteggiamenti "no biogas" dei Governi Conte I e II e di gattopardismo euroburocratico del Governo Draghi.

 

Poiché il testo definitivo non è stato ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, non possiamo cantare vittoria - come però hanno fatto diverse associazioni di categoria - perché le incertezze sono tante. Sappiamo che il Fisco non regala mai niente, quindi: quale sarà il costo da pagare per le aziende agricole in termini di maggiore burocrazia e controlli? Staranno fermi i 5 Stelle ed i loro simpatizzanti "no biogas"? Da osservare che, poiché l'unico trattore esistente specificamente progettato per biometano è il New Holland T6 Methane Power, le opposizioni potrebbero far intervenire l'Antitrust, argomentando che  l'incentivo previsto dal Decreto favorisce di fatto un monopolio, e quindi fermando di fatto il meccanismo di promozione del biometano previsto.

 

Un'altra criticità evidente del testo è rappresentata dalle distorsioni nel mercato dei macchinari agricoli e degli impianti di biogas che si potrebbero innescare. Abbiamo già avuto in passato una situazione analoga con gli incentivi al fotovoltaico, che si sono sempre riflessi direttamente sui prezzi di pannelli. Non è chiaro se verranno introdotte clausole per incentivare i mini impianti di biogas, a beneficio delle piccole aziende agricole, che rappresentano oltre il 60% del totale.

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Poiché il comunicato stampa parla di "impianti esistenti che non si possono convertire a biometano" sembra che si persevererà ancora nel finanziare il "modello tedesco", ovvero gli impianti elettrici da 1 MW costituiti da due o quattro vasconi da 26 metri di diametro, dimensionati a prescindere dalla taglia dell'allevamento o azienda agricola. E cosa dobbiamo pensare dell'obiettivo di "migliorare l'efficienza degli impianti esistenti"? Verrà incentivata una corretta gestione della biologia, così da ricavare più metano per tonnellata di biomassa? Sarebbe auspicabile, in vista delle arcaiche metodologie di gestione del processo biologico diffuse nel nostro Paese, sulle quali non c'è alcuna regolamentazione. O semplicemente i soldi pubblici serviranno per sostituire i motori vecchi con motori praticamente uguali ma nuovi? È vero che gli impianti di biogas più vecchi hanno agitatori con motori classe IE2, ormai superati da quelli IE4, i quali presentano efficienze decisamente più alte. Ma è altrettanto vero che l'utilizzo di motori classe IE4 è obbligatorio solo per le unità di oltre 70 kW senza variatore di velocità (Regolamento (UE) 2019/1781 della Commissione del primo ottobre 2019), per cui difficilmente si avranno aumenti sostanziali dell'efficienza, a meno che l'erogazione dei contributi per l'efficientamento non sia vincolata all'installazione di motori IE4 anche di taglia inferiore a 70 kW.

 

Preoccupante invece è l'intenzione di finanziare "la creazione di poli consortili per il trattamento centralizzato per lo sfruttamento del digestato". In particolare, è il termine "trattamento" quello più preoccupante. Dobbiamo intendere che il Governo tornerà alla vecchia concezione, tanto cara al M5S e ai "comitati no biogas", che il digestato sia un "rifiuto da trattare"? O è semplicemente una scelta lessicale sfortunata?

 

Il Decreto Legge 06 maggio 2024: rafforzamento delle imprese agricole, della pesca e d'interesse strategico

Lo scorso 6 maggio un comunicato stampa del Consiglio dei Ministri ha annunciato una serie di provvedimenti, egregiamente riassunti in questo articolo. L'annuncio del provvedimento, e in particolare uno degli interventi previsti, ha scatenato le diatribe fra destra e sinistra, Ong ecologiste e agricoltori, intellettuali "verdi" e "liberali". Si tratta dell'introduzione del divieto di installazione di nuovi impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra e di aumento dell'estensione di quelli già esistenti nelle zone classificate come agricole dai piani urbanistici. Il Decreto esclude gli impianti finanziati nel quadro dell'attuazione del Pnrr, quelli relativi a progetti di agrivoltaico e quelli da realizzare in cave, miniere, aree in concessione a Ferrovie dello Stato e ai concessionari aeroportuali, aree di rispetto della fascia autostradale, aree interne ad impianti industriali.

 

Il dibattito è stato caratterizzato dalle solite posizioni aprioristiche e dai numeri - presumibilmente veri ma non facilmente verificabili - quotati da ogni parte con intento manipolatorio. Da un punto di vista puramente pragmatico, e poiché c'è tanta superficie già cementificata (leggasi capannoni, aree di parcheggi, tetti residenziali e terziari) il potenziamento della generazione fotovoltaica dovrebbe avere come priorità lo sfruttamento di tali superfici, e qualora si decidesse di sfruttare aree agricole dovrebbero essere impiegate quelle improduttive (ad esempio suoli salinizzati, inariditi o contaminati).

 

Nessuna delle parti coinvolte nel dibattito sembra essere cosciente che, in Italia, la stragrande maggioranza degli impianti a tetto ha i pannelli installati con l'orientamento e/o la pendenza definiti in base a criteri puramente estetici, ovvero i pannelli cosiddetti "integrati" o "semi-integrati". Perfino nei progetti di costruzione ex novo i comuni vietano i tetti con le pendenze che sarebbero ottimali per una data latitudine per motivi puramente estetici.

 

Secondo una stima dell'autore (realizzata con la app Global Solar Atlas, comparando la resa di pannelli "integrati" in un tetto con pendenza di 15° e azimut variabile fra SE e SO, rispetto all'inclinazione ottimale di 37° e azimut 180°) si potrebbe aumentare fra il 5% ed il 10% l'energia effettivamente prodotta con i pannelli già installati. Semplicemente, basterebbe che il Decreto dichiarasse nulle le direttive locali che obbligano a "integrare" i pannelli nelle falde dei tetti, consentendo ai proprietari degli impianti di riposizionare i pannelli con l'azimut e l'inclinazione ottimali.

 

Al di là che il buon senso indichi di dare la priorità all'installazione dei pannelli in luoghi già cementificati, non c'è alcun motivo ambientale o scientifico per vietare tassativamente l'installazione di pannelli a terra nell'ambito agricolo. Semplicemente, andrebbero valutati con un po' di criterio e in funzione del contesto d'inserimento. Ci sono aree che potrebbero accomodare i pannelli a terra senza intaccare la produzione. Ad esempio, nessuno ha menzionato i pannelli galleggianti da installare sui bacini idrici, né il caso particolare degli allevamenti di lumache o lombrichi o le fungaie, che richiedono appunto ombreggiatura quasi totale. E perché non si potrebbero installare i pannelli sui canali irrigui e le loro fasce di servitù? Infine, il bando aprioristico dei pannelli installati a terra in favore di quelli "agrivoltaici" non sembra possa servire allo scopo ultimo tanto agognato dai fautori del Green Deal: la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Il fatto è che per poter posizionare un pannello ad un'altezza di 3-5 metri da terra servono strutture molto più robuste rispetto ad un pannello direttamente fissato a terra.

 

Uno studio del Mase, basato però su dati del Fraunhofer Institut, riferisce che il costo medio delle strutture per impianti a terra è di 65 euro/kWp installato, arrivando a 130-220 euro/kWp per gli impianti agrivoltaici per colture permanenti, che arrivano a 320-600 euro/kWp per i seminativi. Nessuno dei due studi dettaglia le voci di costo delle strutture, presumibilmente acciaio e calcestruzzo. Supponiamo per semplicità che il costo della struttura sia solo acciaio. Poiché il prezzo della carpenteria in acciaio posta in opera è di 6,50 euro/chilogrammo (Fonte in questa pagina), possiamo dedurre che un impianto a terra necessita di 10 chilogrammi di acciaio per ogni kW installato. Data la grande variabilità dei prezzi delle strutture agrivoltaiche, assumiamo un valore medio di 300 euro/kW, corrispondente a 46 chilogrammi/kW. Le emissioni imputabili alla produzione di acciaio sono dell'ordine di 1,8 tonnellate CO2/tonnellata acciaio (Fonte in questa pagina). Vuol dire che le emissioni imputabili alle strutture di supporto dei pannelli a terra sono 18 chilogrammi CO2/kW installato, che salgono a 82,8 chilogrammi/kW nella media degli impianti agrivoltaici.

 

L'impronta di carbonio è ancora maggiore per le strutture in alluminio: 8,7 tonnellate di CO2/tonnellata di Al primario, che scendono a 0,507 tonnellate di CO2/tonnellate di Al nel caso si tratti di metallo riciclato. Eppure, pare che il futuro Decreto non menzioni alcun obbligo di condurre una Life Cycle Analysis (Lca); si limita ad assumere che qualsiasi impianto fotovoltaico vada bene se etichettato come "agrivoltaico" e sia inammissibile se del tipo "a terra", a prescindere dalla sua impronta di carbonio.

 

Un altro aspetto che nessuno ha mai menzionato, né nei dibattiti televisivi, né sui social, è quello dello smaltimento dei pannelli fotovoltaici, la cui vita utile va dai venti ai trenta anni. Cosa faremo con 8 milioni di tonnellate di pannelli fotovoltaici diventati "rifiuto elettronico speciale" entro il 2030 e 60-70 milioni tonnellate entro il 2050? L'Unione Europea crede di aver risolto il problema emanando una Direttiva che impone il riciclaggio di almeno l'80% in peso dei pannelli, ma a che costo e dove? Gli unici impianti di riciclaggio in Europa attualmente in funzione sembrano essere quello della Veolia in Francia e della Solar Waste Recycling Network in Ungheria. Un bel dilemma per una larga fetta di ideologi, la cui avversione ai "poteri forti delle multinazionali" e ai "governi autoritari" va di pari passo con la posizione acritica del "verde a qualsiasi costo".

 

In linea di massima, si potrebbe obiettare che nel dibattito fotovoltaico a terra contro agrivoltaico sbagliano un po' tutti. Il problema di fondo è la violazione del principio di neutralità tecnologica risultante dal favorire di più il fotovoltaico rispetto ad altre tecnologie.

 

Concludiamo con una riflessione finale, nella speranza che coloro che hanno il potere decisionale leggano queste righe: se davvero si vogliono promuovere le energie rinnovabili, costerebbe molto di meno all'Erario pubblico non drogare il mercato con incentivi tariffari né sovvenzioni a fondo perduto. Basterebbe abrogare gli assurdi divieti e limitazioni imposti dai piani regolatori e dagli enti "tutela del paesaggio", limitando il loro campo di azione solamente ai luoghi che effettivamente hanno qualcosa di naturalistico o di storico. Il migliore supporto che uno Stato può dare all'iniziativa privata e alla libera concorrenza è non asfissiare aziende ed investitori con l'eccesso di ingerenza statale.

 

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